Ma come giustificare allora la teologia? Non è anch’essa sapere, non è il sapere della fede? Sì lo è, ma è il sapere di chi sta nelle tenebre, è consapevolezza di essere nell’oscurità e di anelare alla luce, è pensiero critico, negativo, è sapientia noctis. E attenzione: l’oscurità qui non è «la notte in cui tutte le vacche sono nere», perché a suo modo un buio totale è pur tuttavia sicuro, facile da maneggiare. L’oscurità in cui siamo avvolti è invece permeata e attraversata da lampi di luce, da squarci luminosi: per questo la vita è difficile, perché è impossibile fermarsi, fermare il pensiero su qualcosa di solido e di vero per sempre, fosse pure il buio totale.
L’oscurità vera è la contraddizione, l’impossibilità di sapere se è giorno o notte, se prevale più il bene o più il male, se vince la vita o la morte. La dialettica è il sale della vita, e il sale brucia le nostre ferite aperte, i nostri desideri, le nostre speranze. Non sappiamo nulla, e quando sembra che ci accontentiamo di questo non sapere, ecco risorgere, portate come dal vento, le speranze o le illusioni che il vero ci sia, il bello sia riconosciuto, il buono prevalga. E su questo qualcuno ci scommette la vita, ci vive sul serio, e agisce come se questo solo esistesse; sono uomini e donne nobili, come appartenenti a un altro mondo, il mondo vero e giusto come deve essere, se c’è Dio.
Ma se da loro, la cui vita risplende, nascono pensieri e sistemi con pretesa universale, questi sono immancabilmente destinati ad andare alla rovina, a sfracellarsi sugli scogli della storia. Naufraghi, rari nantes in gurgite vasto, ecco quello che siamo. La vita placa la nostra sete cospargendoci del suo sale la gola.
(da V. Mancuso, Il dolore innocente).