Risorgere a nuova vita

Quando parliamo di Dio e delle sue manifestazioni narrate dalle Sacre Scritture, non possiamo fare a meno di usare le nostre categorie razionali e il profondo substrato culturale umano e personale, che caratterizzano la nostra formazione religiosa fin dalla nostra fanciullezza: predicazioni, catechismo, opere d’arte, e tutto ciò che forma il nostro sapere. Così quando ci apprestiamo a leggere o studiare i Vangeli o la Bibbia in generale, partiamo aprioristicamente dal presupposto che essendo Dio che opera e si manifesta, a lui tutto è possibile in virtù della sua onnipotenza. Questo di solito è ciò che si pensa e si tende ad applicare nel campo dello studio biblico e teologico quando ci si approccia solamente col metodo “letterale” e tradizionale alla scoperta dei significati delle parole in essa contenute, che non può che essere mai qualcosa di superficiale. Non nel senso di poco approfondita, ma nel suo significato proprio, cioè di uno studio che si ferma alla superficie di quanto narrato, non osando addentrarsi nella profondità delle parole, pena il timore di sconfessare autorevoli autori, o passare per atei o eretici, non riconoscendo in tal modo l’insegnamento di secoli del magistero cattolico, che ha sempre preferito privilegiare questo aspetto.

Forti allora del fatto che letteralmente si sta parlando di rivelazione e manifestazioni divine, e che l’attributo per eccellenza di Dio è l’Onnipotenza, ecco che tutte le manifestazioni sue non possono prescindere dal fatto miracolistico e dalla azione portentosa. D’altronde anche i libri dell’antichità delle culture anteriori o coeve alla compilazione della Bibbia (vedi Omero ed Esiodo), parlavano dei loro dei attribuendo loro potenza assoluta e poteri illimitati che magari si arrestavano solo di fronte alla Moira crudele. Ma in ogni caso il dio che si manifestava assumeva sembianze conosciute all’umano, e a lui familiari; mentre i fenomeni più portentosi erano sempre accompagnati da sconvolgimenti naturali, come tuoni, tempeste, siccità, inondazioni eccezionali. La narrazione biblica non sfugge a questi esempi e perciò narra di roveti ardenti, nuvole, tuoni, diluvi, facendo tesoro della cultura di un tempo antico e rielaborando però con spirito nuovo e originale i contesti e formulando nuovi significati. Solo che leggendo le Sacre Scritture ci si trova di fronte a tutto e al suo contrario: Dio o Yahwhe vengono raffigurati come una presenza costante accanto ad un popolo che viene difeso o punito, a secondo dei meriti o delle colpe dello stesso popolo, e tante manifestazioni di Dio sono in contraddizione tra loro e perciò molto improbabili. Ma facendo dello studio letterale la sola arma a disposizione della conoscenza biblica, si accetta per possibile tutto quello che vi è narrato, per cui episodi come il passaggio del mar Rosso, o la caduta di Gerico al suono delle trombe di Giosuè, sono considerate manifestazioni della potenza divina, tanto che se vi fosse narrato che Dio fa pure i cerchi quadrati, questo verrebbe preso come realmente accaduto. Perché nulla può essere precluso alla sua potenza e quindi niente è impossibile per Dio, come dice Luca 1,37.

Ma tutto ciò serve a dimostrare l’esistenza di Dio? Io resto convinto di no. Ormai da oltre due secoli, la lettura della Bibbia e dei testi sacri ha fatto enormi progressi, lo studio letterale è il primo passo di conoscenza che impone poi lo studio esegetico completo tramite una conoscenza storico-critica dei testi sacri, inquadrati nel loro contesto storico e culturale, con un linguaggio che era idoneo a quei tempi ma non lo è più adesso come in futuro. Da qui la necessità di elaborare il linguaggio biblico adattandolo alla nostra cultura e conoscenza, senza per questo essere tacciati di andare contro l’insegnamento di chicchessia autorità religiosa, e perciò atei o miscredenti.  Ecco allora che i “cerchi quadrati” non sono utili a farci dire che se sono possibili a Dio, e non potrebbe essere altrimenti, non servono a dimostrare la sua esistenza, e sono completamente inutili. Intendiamo con questa battuta dire che il miracolo non fa parte della fede in Dio, e non appartiene alla categoria divina. Dio non opera nella natura, alterando leggi e meccanismi della stessa, perché tale è il miracolo. Lo diceva pure Tommaso l’aquinate: Dio non agisce nel mondo ma “agisce il mondo”. Quindi l’uomo non ha nessun diritto di chiedere a chi per sua natura è trascendente di manifestarsi come Dio e farsi conoscere. Nel momento in cui ciò accadrebbe, mettiamo che un enorme occhio col triangolo si manifesti in cielo e dica a tutti: “Eccomi qua”, credo che in quel momento aumenterebbero gli atei e non i credenti.

Dio è puramente trascendente, ed è spirito, quindi esula dal tempo e dallo spazio, e dalla conoscenza intelligibile dei sensi umani. Ecco perché Gesù taccia i suoi connazionali come “generazione incredula” che aspetta i segni dal cielo per credere. Dio non opera coi miracoli, non opera con manifestazioni visibili o invisibili ai più e in privilegio a pochi eletti; Dio non opera prodigi mirabolanti, ma lascia che il mondo si faccia secondo le sue leggi e secondo libertà. Cosa possiamo conseguire a questo punto della discussione? Parliamo dei miracoli di Gesù? Se ci pensiamo bene queste opere e segni di potenza non sono miracoli, ma manifestazioni di un amore che va al di là delle misure umane, un insegnamento profondo di come la compassione la misericordia umana potrebbero essere senza limite, al punto da apparire portentosi.

Gesù d’altronde muore e fino all’ultimo ama. Perché Dio non è intervenuto a fermare il corso degli eventi e far scendere Gesù dalla croce? Forse per compiere fino all’ultimo questo sacrificio espiatorio dei peccati? Sappiamo bene che questa è apologia dei primi cristiani per giustificare l’infamia di quella morte, che divenne poi patrimonio del cattolicesimo con Anselmo. Eppure Dio agisce su Gesù, ma dopo la morte. Dice S. Paolo che Dio lo resuscita dai morti e lo glorifica (Filippesi 2,5). Ecco l’azione di Dio su Gesù c’è, ma dopo la morte dello stesso Gesù; e Gesù entra nella gloria del Padre e ne assume le caratteristiche (trascendenza e spirito). La resurrezione di Gesù significa Vittoria sulla Morte.

Questo termine, resurrezione, appartiene alla tradizione farisaica e Gesù lo usa nel vangelo di Marco sempre davanti ai Giudei. Mentre in generale, rivolgendosi agli altri, parla di “salvare” la vita, cioè ottenere una vita di una qualità tale che la rende capace di superare la morte (Mc 8,35). Nel Nuovo Testamento il termine resurrezione spesso è usato in modo polemico; di fatto in pratica se chi è morto giace in posizione orizzontale, il termine resurrezione indica “l’alzarsi di nuovo”.    Nel Vangelo si dice che Dio resuscita da morte Gesù condannato e giustiziato dai Giudei, cioè che Dio dà ragione a Gesù contro il sistema religioso che si arrogava       il diritto di onorare Dio con la legge e rappresentarlo facendosi suo intermediario. Addirittura con la resurrezione, Dio rende non valida la loro sentenza di morte nei confronti di Gesù. Teologicamente però è fondante il concetto della vita che vince   la morte, cioè una vita che   non muore perché vivificata dallo Spirito, forza di vita e di amore che   è Dio stesso. Chi possiede questa vita di qualità divina e pratica l’amore verso gli   altri non muore, e la morte è solo un incidente biologico che non ha alcunché di distruttivo. Così si realizza l’utopia di Gesù, (Mt 16,18): “e il potere della morte non la sconfiggerà”… Il progetto di Gesù quindi passa da una fase in cui l’umanità nella storia deve acquistare il suo massimo sviluppo in pienezza di vita, amando gli altri    e seguendo pace e giustizia, per poi coronare tali conquiste nella fase finale del Regno che sancirà le conquiste della esistenza terrena. Tutta l’attività di Gesù si basa sulla sua esperienza di Dio come amore, e da ciò l’appellativo di Padre, che è colui che per amore comunica agli uomini la propria vita. Un Padre che ama, non tollera che i figli soffrano e siano oppressi in modo da non raggiungere la pienezza di vita. Ecco perché Gesù che ha coscienza di questo amore lotta per i deboli e accetta di mettersi dalla loro parte, fino alla morte in croce per compiere la sua opera di liberazione. La sua missione si svolge verso tutti coloro che sono emarginati sia dalla religione che dalla società; manda per aria le ideologie nazionalistiche e religiose che favoriscono schiavitù ed esclusione, impedendo la fratellanza e l’amore universale; abbatte gli steccati del nazionalismo giudaico e quelli religiosi del popolo eletto, aprendo la conoscenza di Dio anche ai pagani. La totale rinuncia all’odio e alla violenza rendono però diversi i modi di manifestare la lotta alla schiavitù che nell’A.T. sono spesso improntati alla azione di un Dio capace anche di usare le maniere forti, come nei confronti del faraone,  e  “partigiano”. Gesù libera anche a costo della sua vita, perché chi ama dona la vita per salvare i suoi amici, e anche i nemici, senza chiedere nulla in cambio. L’amore incondizionato del Padre viene concesso a tutti senza che nessuno possa averne merito, ma solamente bisogno.

Secondo la teoria dei cerchi quadrati, Dio avrebbe potuto operare nel momento della condanna e salvare il Figlio dalla croce, ma così non fu, perché la sua azione fosse manifestata nella trascendenza del sepolcro e non nella immanenza del Calvario. Gesù quindi diventa il profeta e il servo giusto glorificato secondo i canoni del tempo. Ma dopo la resurrezione dei morti, avendo Gesù le caratteristiche divine, potrebbe essere apparso con corpo fisico ai suoi? Poteva farli “impazzire” letteralmente con quei comandi o consigli di vederlo in Galilea mentre i suoi sono a Gerusalemme, e comparire ad Emmaus, oppure rimanere a mostrare per 40 giorni la sua predicazione sul regno (Atti). Mentre un altro vangelo (dello stesso autore, Lc 24) racconta che ascese al cielo lo stesso giorno della resurrezione? Se stiamo ai cerchi quadrati cioè ai miracoli, tutto potrebbe essere trattandosi di Gesù-dio; ma siccome noi dobbiamo essere certi che la nostra intelligenza della fede (la vera teologia per intenderci) ci dia qualche squarcio di luce su verità per ora intellegibili, perché vogliamo capire fin dove ci è possibile capire, (io credo che se il cuore umano è capace di amare senza limiti come Dio, allora anche la ragione riuscirà a superare se stessa e sconfinare nell’infinito della conoscenza), dobbiamo portare il discorso alle sue logiche ed estreme conseguenze. E’ chiaro per me che Gesù non appare in corpo, non può tornare dall’aldilà a farsi vedere e toccare, persino mangiare con loro e apparire e scomparire come un fantasma che attraversa le porte chiuse. Queste narrazioni ci dicono che siamo ai concetti umani che devono esprimere esperienze intime di cose trascendenti, perciò peccano di indeterminatezza e incongruenze. Ma una cosa è certa: Gesù non fabbrica cerchi quadrati coerente col Padre suo! Non usa effetti speciali per spingerci alla fede nel Risorto. Coloro che narrano delle sue apparizioni lo vedono con gli occhi della fede fortificata dal suo insegnamento, hanno vinto la paura della morte perché sono liberi dal peso di una cultura egemone che li vuole sottomessi ad una religione e ad un potere politico economico che schiavizza l’uomo e lo rende inerme e debole.  Lo Spirito di Dio libera e fortifica; la resurrezione in tal senso è una speranza che va al di là della morte e della stessa vita che rifulge in una dimensione superiore che non è quella che noi conosciamo ma alla quale aneliamo da sempre. E se lo desideriamo vuol dire che è possibile…perché nulla di ciò che esiste può essere esterno all’uomo: noli foras ire: in interiore homine habitat veritas.

                              Testimoni del Risorto, non della Resurrezione.

Come si può parlare di apparizioni dopo la resurrezione? In due modi secondo me: o fermarsi alla superficialità dell’evento, ove essendo in causa un essere divino tutto gli è possibile, e quindi non c’è da stupirsi se attraversa i muri o appare all’improvviso in più luoghi diversi contemporaneamente come potrebbe trapelare da una disattenta lettura dei vangeli. Oppure cercando di entrare nel mistero vero e proprio della narrazione evangelica, che cerca di raccontare eventi intangibili e aldilà della ragione e della comprensione umana con parole ed esempi che sono adatti alla razionalità comune e alle conoscenze del periodo in cui furono vergate con pagine teologiche di grande spessore.

L’evangelista Luca per esempio, nel capitolo 24, conclusivo della prima parte della sua opera, che poi continuerà con Gli Atti, parte dalla visita delle donne al sepolcro   il primo giorno della settimana. Questa annotazione temporale è importante, perché ci dice che tutto quello che d’ora in poi succederà sarà un evento nuovo, un nuovo inizio, l’inizio della nuova umanità in una nuova creazione. Il mancato rinvenimento del corpo di Gesù sta a significare che la vecchia umanità in cui si era incarnata la Parola creatrice di Dio così come l’abbiamo conosciuta in Genesi, adesso non esiste più. Il vecchio ADAMO viene sostituito dal nuovo e ora la nuova creazione ha inizio, e sarà quella definitiva, che con la assunzione in cielo del Risorto, narrata qualche versetto dopo, altro non è che la prefigurazione del destino finale degli uomini. Cioè il progetto che Dio fin dalla prima creazione narrata in Genesi, aveva stabilito per l’uomo: la sua divinizzazione e il ritorno nell’Eden.  

Le Donne sono le prime testimoni, poco attendibili in verità per quell’epoca, dell’evento. Se ci pensiamo su un attimo, chi fu la prima testimone della creazione dell’uomo Adamo, se non una donna, Eva? Beh, il parallelismo non è tanto lineare, eppure nell’Eden solo loro due erano presenti, e dopo che Adamo veniva forgiato dall’alito divino, Eva creata da una costola di Adamo, è la testimone dell’opera di Dio che sta davanti i suoi occhi.  Il giorno dopo il sabato, le donne arrivate al sepolcro trovano la pietra che era stata posta all’ingresso divelta, rimossa; inoltre non trovano il corpo da ungere del defunto, ma trovano due uomini vestiti di bianco, il volto luminoso, come due esseri celesti. Le stesse sembianze di Gesù sul monte della trasfigurazione.

La pietra enorme che chiude il sepolcro rappresenta la grande difficoltà che noi uomini abbiamo a comprendere il mistero della morte, che riteniamo abbia l’ultima parola, tanto che nell’uso comune è entrato il detto “mettere una pietra sopra” per considerare definitivamente chiuso un argomento. Ebbene da adesso non è più così; ora qualcuno ha risolto per noi il difficile compito della comprensione del mistero della morte, togliendo quel macigno che rendeva definitiva la morte, rivelandoci che essa non è la fine di tutto, ma l’inizio di una nuova e potenziata esistenza. 

Luca non vuole narrare fatti inverosimili, ma ci dà conto di ciò che succede con immagini letterarie ed emozioni tangibili, come in un film. Egli traccia il travaglio che attraversa quelle donne, e ce lo disegna coi tratti e con le parole dei due messaggeri. Essi ricordano loro le parole che Gesù disse in Galilea, che il Figlio dell’uomo doveva soccombere ed essere crocifisso, per poi risorgere il terzo giorno.

Da vero e provetto regista cinematografico, Luca fa scorrere in immagini quello che in realtà è il pensiero che attraversa la mente e il cuore delle donne: ricordare equivale a comprendere. Esse ricordano e in tal modo capiscono le parole dette da Gesù in passato e comprendono adesso ciò che succede, e corrono dagli undici. Questi non credettero a loro, e il più incredulo di tutti, Pietro, corse al sepolcro e vi trovò solo le bende.  Il film del racconto evangelico prosegue incalzante di immagini e sensazioni che Luca raffigura con uno stile narrativo insuperabile. Siamo nel medesimo giorno sulla strada di Emmaus. Due sfiduciati discepoli stanno tornando a Gerusalemme, la città della morte del Messia che loro volevano come quello ricordato a Emmaus, il luogo della ultima e gloriosa, seppur sanguinosa e fallita rivolta dell’ultimo sedicente messia. Si avvicina a loro uno sconosciuto, che è Gesù, ma non lo riconoscono. Perché? Luca narra sempre di un travaglio interiore di cui sono preda i due discepoli, e lo tratteggia cinematograficamente. La nuova condizione metastorica del Cristo non permette loro di riconoscere la persona con il quale sono stati assieme molto tempo. Ma non perché era trasfigurato nella gloria, sarebbe stato sospetto in questo caso il mancato riconoscimento. Anche loro non lo conoscono perché non hanno compreso il senso di quella morte, non conoscono il vero significato delle Scritture, che permetterebbe loro di spiegarsi l’arcano.

Ecco Gesù stesso in persona allora che spiega loro le Scritture alla luce della sua venuta. Bisogna così tenere presente l’avvenimento della Trasfigurazione quando sul monte, Gesù in mezzo ad Elia e Mosè viene indicato dalla voce del cielo come colui che doveva essere ascoltato. Solo lui ascoltate, dice la voce, e Mosè ed Elia scompaiono lasciandolo solo. Ma questo è solo un aspetto del riconoscere Gesù, un monito ai credenti di ogni tempo: non basta solamente la corretta esegesi e conoscenza delle scritture per riconoscere Gesù risorto. Bisogna fare altro e di più, molto di più. Quando si fermano per la Cena solamente allo spezzare il pane essi lo riconoscono, il gesto del dono, il gesto della condivisione lo rende visibile ai loro occhi: e appena questo avviene, misteriosamente Gesù scompare. Luca non vuole far compiere giochi di prestigio al Risorto, ma ci vuole dire che l’essenziale per rendere presente Gesù nella comunità, anche tra due riuniti nel suo nome, è il gesto che si compie spezzando il pane, donandoci come fece lui e come invita a fare a tutti noi. E’ ancora una esperienza di vita della comunità quindi che esclude fenomeni allucinatori o visioni misticheggianti, perché Luca coerente con la sua linea teologica narra e ci mostra ciò che in realtà accade nel cuore dei credenti dell’epoca, testimoni di quegli eventi. Che voglio ribadire, non hanno nulla di spettacolare e di metafisico, ma sono vicende interiori narrate con un linguaggio che è costruzione umana. Il racconto prosegue con i discepoli riuniti che parlano delle ultime vicende accadute ai due sulla strada di Emmaus, e di come essi lo riconobbero dopo che fu spezzato il pane. Un continuo richiamo di Luca ai gesti comunitari eucaristici che rendono il Risorto presente nella sua comunità.  Gesù all’improvviso appare in mezzo a loro, non ha bussato, non ha attraversato muri e porte, semplicemente stà ”in mezzo alla sua comunità”. Credono di vedere un fantasma, ma fantasma egli non è. Egli mostra i segni della morte in croce, le mani e il costato feriti. E’un altro gesto significativo: la vita data per amore dei suoi amici sulla croce, si rende visibile nei segni della morte. Il Risorto si manifesta quando la sua comunità esercita un amore pari al suo. Una esperienza che è reale, perché se esercitiamo l’amore i suoi benefici sono reali e immediati, e sappiamo che così si rende reale e manifesta la presenza del Risorto nella sua comunità. Egli è lì con te e tu non puoi farci nulla. Una presenza che vince ogni resistenza e che non ha più vincoli storici e contro la quale ogni potenza umana è inefficace. Teniamolo a mente questo messaggio di Luca, con il quale l’evangelista ci indica le due modalità con cui rendere manifesto il Risorto nella nostra vita: un nuovo modo di essere ancora in mezzo ai suoi: Parola e Pane, in cui egli si lascia storicamente raggiungere da ogni credente. Una Parola che rigenera a vita nuova: “Poiché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, mediante la parola di Dio vivente e permanente (1 Pt 1,23)”. Un Pane che trasfonde l’eternità di Dio nei suoi discepoli: “Io sono il pane della vita. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (Gv 6,48-51)”. Nessun evento mirabolante quindi nelle apparizioni, ma una lettura lineare degli eventi, basata sulla ferma convinzione che quello che Gesù ha intrapreso non è un miracoloso gioco di prestigio, ma un insegnamento, un apripista dove noi dobbiamo incamminarci per realizzare il progetto che Dio ha stabilito sulla nostra vita. la nostra divinizzazione.

La traccia per interpretare tutto il capitolo 24 io l’ho indicata, è la rappresentazione per immagini improprie eppure bellissime, come un film da Oscar, che Luca mette per iscritto per tratteggiare le emozioni e i sentimenti della comunità dopo i giorni della croce. Luca non è un testimone diretto, raccoglie le esperienze di altri, i racconti, che non sono altro che la tradizione orale che da circa 20 anni dominava la scena tra le prime comunità, e ci descrive il loro sentire, i loro dubbi, laceranti persino, al punto che il Risorto sente il bisogno di mangiare con loro e bere. In tal modo Luca traduce in atti umani un intervento altrimenti al di là della comprensione umana come potrebbe essere quel senso di apertura che la comunità sente di avere nel momento in cui comprende l’insegnamento del Maestro, condivisione ed eucarestia. Questi episodi confermano la grande conoscenza delle Scritture da parte di Luca, che si presume essere un rabbino dottore della legge, oltre che medico, che serve all’evangelista a raccontare l’inconoscibile alla luce della ragione ma non della fede.

Sappiamo tutti che i vangeli narrano le apparizioni del Risorto, ma nessuno dei quattro testi ci racconta la resurrezione e come essa è avvenuta e cosa sia successo. Come credenti noi sappiamo che Gesù è risorto, altrimenti vana sarebbe la nostra fede, come recita Paolo 1 Cor.15, per cui gli evangelisti, non narrando nessun fatto di cronaca spicciola, vogliono lasciarci un insegnamento del modo con cui sperimentare Gesù risorto e vivente nella nostra vita, allo stesso modo di come lo sperimentò la sua comunità a quel tempo. Per fare ciò usano un linguaggio quanto più semplice e universale possibile che potesse rimanere attuale e vivo in ogni epoca, in modo che ripercorrere le tappe di quella esperienza vivificante potesse essere di ausilio ai credenti di ogni tempo. Quindi non fenomeni paranormali e miracolistici ai limiti dell’assurdo ci vogliono tramandare i vangeli, ma una serie di incontri che fan sì che si riesca a cogliere quella che fu la grande scoperta della fede in Cristo: e cioè la possibilità che una vita spesa per amore degli altri possa acquistare quella pienezza divina che le fa superare la morte.

Purtroppo leggendo i capitoli che riguardano le apparizioni ho notato come le traduzioni in italiano dei vangeli dalla lingua greca, mostrino una povertà di linguaggio nelle espressioni verbali che non rendono giustizia al contenuto. Tale evidente lacuna la si riscontra nell’uso illimitato del verbo “vedere”, che in italiano è è spesso associato solo alla vista fisica, con il quale si traducono i vari modi di “vedere” nella lingua greca usata dagli evangelisti. Si perdono così nei meandri di una traduzione molto scorretta e povera di contenuto, i pieni significati che la lingua greca riserva ai modi verbali con cui nel vangelo sono espressi le modalità con cui i discepoli e tutta la prima comunità cristiana “vedevano” Gesù risorto.

Esaminiamo il vangelo di Giovanni, capitolo 20. In esso troviamo almeno tre modi di esprimere l’azione del vedere, e vengono usati tre verbi specifici per questa funzione:

 BLEPO βλέπω  che indica la vista fisica. Percepire delle immagini tramite l’occhio, senza necessariamente prestarci attenzione: vedo una pietra, un telo, un sudario.

ORAO  ὁράω  guardare, mirare, volger lo sguardo, esaminare, volger l’attenzione  che indica la vista interiore, quella della fede di colui che afferra  un fatto  e lo comprende.

TEOREO    θεωρώ  significa percepire, aver davanti una realtà più o meno fisica e comprenderla più o meno a fondo. Significa anche contemplare, essere testimone.

Andiamo a esaminarli ove possibile nel testo di Giovanni 20.

Gv 20,1 … e vide che la pietra = καὶ βλέπει τὸν λίθον–   BLEPO  (vista fisica, con i propri occhi).

 Gv 20,5 … Chinatosi, vide le bende per terra, = καὶ παρακύψας βλέπει κείμενα–    BLEPO

Gv 20,6 …  vide le bende per terra, =   καὶ θεωρεῖ τὰ ὀθόνια κείμενα  –TEOREO (una vista di qualcosa che è a metà  tra la fisicità e la contemplazione ).

Gv 20,8 …   e vide e credette. = καὶ εἶδεν  ( ORAO)  καὶ ἐπίστευσεν (credette).

Gv 20,12…  (Maria) e vide due angeli in bianche vesti, = καὶ “θεωρεῖ ” δύο ἀγγέλους ἐν λευκοῖς  TEOREO.

Gv 20,14…  Maria vide Gesù che stava lì in piedi; = καὶ  “θεωρεῖ ” τὸν Ἰησοῦν ἑστῶτα –TEOREO.

Gv 20,18 … “Ho visto il Signore» =”Ἑώρακα”  τὸν κύριον  (ORAO’  implica l’aver visto e compreso, indica il vedere simbolico).-

Gv 20,20 … E i discepoli gioirono al vedere il Signore = μαθηταὶ “ἰδόντες ” (ORAO)  τὸν κύριον.

Gv 20,25…  «Abbiamo visto il Signore!». = “Ἑωράκαμεν” (ORAO) τὸν κύριον.

Gv 20,25… (Tommaso) «Se non vedo nelle sue mani =  ” ἴδω” ἐν ταῖς χερσὶν ORAO     (vedere con la vista interiore, quella della fede).

Gv 20,29 …  (Gesù gli disse)  «Perché mi hai veduto, hai creduto: = Ὅτι ἑώρακάς  ORAO  με πεπίστευκας. beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».   μακάριοι οἱ μὴ ἰδόντες καὶ πιστεύσαντες.  ORAO, la vista della fede.

Nel capito 1 invece dal versetto 35, abbiamo Giovanni Battista che “avendo fissato” Gesù lo riconosce come agnello di Dio, quello della notte dell’Esodo, il cui sangue evitò l’azione dell’angelo sterminatore agli ebrei fuggitivi. In questo caso usa il Verbo BLEPO, per indicare la vista fisica, esteriore. 

Al versetto 39, Gesù alla domanda dei discepoli: “Maestro dove abiti?”, risponde: Venite e vedrete “ofeste” imperativo da ORAO, che indica sempre la vista interiore, quella legata ad una esperienza interiore propria della fede.

“Andarono dunque e videro, EIDAN”, dal verbo ORAO, sempre come vedere interiormente con gli occhi della fede, della loro esperienza di vita.

Andiamo dunque, e con gli occhi del cuore che solo la fede può darci, appressiamoci al Risorto con animo rinnovato, nello Spirito di quell’insegnamento che solo può permetterci di farne esperienza come Cristo vivente: le Beatitudini, le chiavi della porta del Regno. 

“Se i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti”. Corinzi, 15,13-14.

“Annunciare il Crocifisso come il Vivente era tutt’altro che una cosa naturale. Anzi, secondo Paolo era una «morìa», un’«assurdità», la follia per eccellenza. Significava però la volontà di affermare – nella speranza contro ogni speranza – proprio di fronte al fallimento, che questo rigettato e condannato dalle legittime autorità, questo presunto maledetto da Dio, ha, nonostante tutto, avuto ragione, che, anzi, Dio, nel cui nome questo pseudo messia venne eliminato, lo ha accolto e confermato. Che, quindi, Dio si è messo dalla sua parte e non da quella della gerarchia fedele alla Legge e schiava della lettera, che riteneva di aver eseguito la volontà di Dio. Credere nel Risuscitato a vita nuova significa, quindi, tornare a riflettere sulla vita, che egli ha vissuto, sulla via, che egli ha percorso; significa, in una parola, iniziazione alla sequela dell’Uno che mi impegna incondizionatamente a percorrere la mia via, la mia propria via, secondo le sue indicazioni. (H. Kung Vita Eterna?)

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Pubblicato da Gioacchino La Greca

Sono nato il 27 novembre 1958, in un piccolo centro della provincia di Agrigento, la terra cara agli dei immortali che Pindaro descrisse come coloro che vivevano giorno per giorno come se dovessero morire l'indomani e costruivano come se dovessero vivere in eterno. Sono un medico, esercito in una cittadina centro agricolo un tempo prosperoso famoso per il prodotto DOP UVA ITALIA, per i vini, e per il barocco. Il mio blog è la raccolta estremamente varia di ciò che penso, facoltà che mi avvalgo di usare anche a mio discapito, messo per iscritto per non disperdere nel tempo il valore del pensiero che ognuno di noi coltiva dentro e che non può andare ad annullarsi nell'eterno mistero dell'essere. Ma che abbiamo l'obbligo di passare alle generazioni future come patrimonio spirituale.

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