Per il 23 dicembre 1985, solo benedizioni

C’è stato un giorno che mi trovai a leggere un tema di quarta elementare: cosa farai da grande. Un classico, credo per tutti.
L’idea di iscrivermi in medicina, mi aveva sfiorato fin da piccolo, trovando poi conferma dopo la maturità classica.
Ricordo ancora quel tema: voglio fare il medico che cura i malati.
Ricordo ancora il voto, nove, e ricordo ancora la maestra che dopo che mi rivide laureato dopo tanti anni da quel tema mi disse: Sei stato di parola!

Il motivo per cui  volevo fare medicina era la curiosità:  un medico, la morte, la vede prima, e con essa la sofferenza della malattia che spesso la precede.
La conosce subito e prende subito consapevolezza dell’impossibilità di essere un super eroe, ma che la gente spesso scambia per colui che tutto può. E se non può, non è un buon medico…
Un medico, molto spesso, deve masticare il boccone amaro quando agli altri non è ancora nemmeno arrivato il piatto.
Guarda i segni della fine, la prevede,  e cerca di renderne sopportabili i contorni con ostinazione e, soprattutto, con coraggio, e con gran dose di faccia tosta nel dire spesso o talvolta che va tutto bene e poi ingoiare il sapore amaro della pietosa bugia..
E io, questo coraggio non l’avevo, e sono sempre stato un gran vigliacco di fronte al dolore e alla morte.
Eppure ho vinto le reticenze legate a queste paure, ai miei timori, anche se ero ancora capace di saltare certi capitoli di patologie per me paurose.
Credo sia successo un poco a tutti studiare e sentirsi addosso quei malanni che man mano si incontravano sulle pagine di quei testi “sacri”.
Io sono un medico adesso e so cosa fanno i medici, perché sono passati 35 anni dalla mia proclamazione.
Un bellissimo mercoledì di dicembre, come oggi, indelebile e vivo nella mente e nel cuore.
E nel cuore custodiamo sensazioni e ricordi, che la vita e il lavoro non sempre ce li riservano lieti.
Spesso siamo custodi di notizie difficili che si deve  imparare a dare con delicatezza e garbo, discrezione, pure con una carezza se occorre…
Per questo, ho imparato a soffrire in silenzio; a piangere di nascosto; spesso a pregare perché credo nel Bene e nei suoi benefici effetti; a chiudermi dentro un involucro un po’ più freddo di quello degli altri che, stranamente, serve a proteggermi, e mi riscalda.
Un medico, nell’arco della sua vita, impara a conoscere, meglio di chiunque altro, il dolore del corpo e quello dell’anima.
È colui che vede i tratti più marcati della sofferenza, quei tratti che cerca di sfumare con flebo che non sono solo piene di medicinali ma anche di speranza e fiducia.
Tra i corridoi di un ospedale o negli studi o per le strade comuni, i medici si incrociano, si scambiano sorrisi, si raccontano storie, si danno pacche sulle spalle, si consolano per le vite che hanno dovuto lasciar andare, pregano per quelle che vorrebbero salvare.
Un caffè e stirano le pieghe di una giornataccia che è andata; uno sguardo amico e trovano la forza di restare in trincea anche quando cuore, testa ed emozioni, dicono di scappare.
Un vero medico non è mai un mercenario, non ho mai pensato di esserlo, e credo che chi mi conosce lo può confermare.
Un vero medico ha a cura il paziente nella sua totalità e, se adopera in coscienza, non rimane “altro” e diverso dalla persona che segue ma, in qualche modo, empatizza, se lo porta a casa, dentro la sua vita, dentro ore passate a cercare una diagnosi, tra pensieri, soluzioni, alternative e lacrime.
Ci vuole stoffa, grande spirito di sacrificio, notti insonni come quelle passate all’università, e capacità di assumersi dei rischi.
Ci vuole un cielo al quale appendere sconfitte e traguardi, ma mai un chiodo dove appendere la borsa di lavoro  in segno di resa.
Ci vogliono occhi capaci di vedere bene anche quando sono quasi chiusi dal sonno e riflessi sempre pronti, specie in quelle notti passate  anche tra le mura di Guardie Mediche in cui in qualunque momento suonava il telefono per una urgenza o una cazzata.
E prendersi pure gli ironici rimproveri del collega-amico quando non ti smuovevano neanche le bombe e per fortuna ci stava chi ti sopperiva quella notte…
Per fare il medico, ci vuole ardore, passione e un fuoco d’amore, dentro. Bisogna credere a quello che si fa, avere alta autostima, ma non boria e aura di aria fritta attorno a sé.
Credo che il senso del dovere, unito a questo grande fuoco, abbia portato molti colleghi  a sfidare nei giorni di pandemia un virus maledetto che si è portato via molti colleghi, e altre tantissime vite umane travolgendo i loro sogni e le loro esistenze.
Credo che molti di noi siamo medici veri: di quelli che la mattina, si svegliano non solo per portare, onestamente, il pane a casa, ma soprattutto per alleviare, lenire e mitigare il dolore altrui.
I medici  sono gli eroi della normalità: quelli che brillano per i giorni cuciti sulla giacca, le solitudini incollate al cappotto, la  borsa piena di rimpianti e gioie,  e lo stetoscopio pieno di respiri.
E io credo che questa Italia martoriata da sciacalli, ad oggi, trovi la sua luce più grande, solo nelle azioni mute dei semplici.
Semplici come dobbiamo essere tutti, come sento di essere.
Semplici con un bel sorriso sempre pronto, pieno di sole, dedizione, lavoro e vita.
Semplici come chi è capace di amare facendo il bene, e onorando un mestiere che spesso riserva croci e poco ha di delizie.
Ma in questi 35 anni non ho ancora avuto un solo momento di pentimento per avere scelto quel giorno quella facoltà, che pur tra dubbi e paure mi ha dato tanto e reso forse migliore di quanto avrei potuto essere altrove…
Al punto che mai finirò di dire grazie a chi tutto questo ha potuto renderlo possibile con sacrifici e affetto.
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Pubblicato da Gioacchino La Greca

Sono nato il 27 novembre 1958, in un piccolo centro della provincia di Agrigento, la terra cara agli dei immortali che Pindaro descrisse come coloro che vivevano giorno per giorno come se dovessero morire l'indomani e costruivano come se dovessero vivere in eterno. Sono un medico, esercito in una cittadina centro agricolo un tempo prosperoso famoso per il prodotto DOP UVA ITALIA, per i vini, e per il barocco. Il mio blog è la raccolta estremamente varia di ciò che penso, facoltà che mi avvalgo di usare anche a mio discapito, messo per iscritto per non disperdere nel tempo il valore del pensiero che ognuno di noi coltiva dentro e che non può andare ad annullarsi nell'eterno mistero dell'essere. Ma che abbiamo l'obbligo di passare alle generazioni future come patrimonio spirituale.