Ne sono oltremodo convinto. Ho ascoltato e conosco troppe storie di vite di persone devastate dal divorzio. Non solo perché è andato distrutto un progetto di vita in comune con altri, ma spesso perché in queste persone, fragili, sensibili, delicate, timorose di Dio perché no, si è insinuato profondamente nella loro coscienza il senso del peccato. Per aver sciolto un sacramento che si pensa voluto da Dio. E questa idea di peccato, di indegnità, di impurità, che le rende incerte e fragili, preda dei sensi di colpa e naufraghi nelle comunità in cui mai sono accolti con occhio benigno, ma spesso fatti bersaglio di critiche e malvagità, rende impossibile loro la vita, un ritorno alla serenità e alla tranquillità. La esortazione pastorale sembra rivolta alle comunità affinché si facciano accoglienti e caritatevoli verso queste persone; diciamolo, è un brodino insipido questa dell’accoglienza e del discernimento. Perché non toglie la causa del malessere spirituale di queste persone. E la causa di ciò è l’idea del peccato dovuta alla violazione della dottrina della indissolubilità del sacramento del matrimonio. Finché il matrimonio viene definito come indissolubile e come volontà di Dio, chiunque timorato dal castigo di questa divinità, che si offende per il peccato di divorzio, aggravato poi da una convivenza in seconde nozze more uxorio, non troverà nessun sollievo da una accoglienza sacramentale, ammesso che le verrà concessa. Quello che era necessario era riformare la dottrina sulla indissolubilità del matrimonio. Se esso è un sacramento basato sull’amore, di cui tanto si parla nella esortazione, ebbene se questo amore finisce o cessa di esistere non c’è carità che tenga; il matrimonio è bello e finito, e affrontarne le conseguenze della fine risparmierebbe inferni di conflitti e pene quotidiane ai coniugi che decidono di separarsi. Senza peccato, senza castigo, senza rancore.
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