LA FEDE DI GESU’ prima parte

 

 

La fede di Gesù
Riflessioni sulla teologia cattolica (1)
(prima parte)
di Carlo Molari

 

Fino a qualche decennio fa i teologi cattolici non parlavano della fede di Gesù e, se qualcuno affrontava il problema, lo faceva per negare che Gesù nel suo pellegrinaggio terreno avesse esercitato la fede teologale. Si pensava infatti che Gesù godesse di una conoscenza immediata di Dio e in Dio di tutta la realtà creata, così da non poter esercitare la fede: la Visione glielo impediva. Alcuni giungevano a negarGli anche l’esercizio della speranza teologale. Gesù, che già possedeva la pienezza della grazia, non poteva attendere altro da Dio. (2) S. Tommaso in un primo momento sosteneva l’opinione secondo cui Gesù non avrebbe neppure avuto vere conoscenze sperimentali perché anch’esse erano infuse, poi cambiò idea, (3) ma a proposito della fede continuò a negarla con questa motivazione: “Oggetto della fede, come si è detto nella seconda parte (II-II q. 4 a. 1) è la realtà divina non vista (res divina non visa). Ora l’abito della fede, come ogni altro, riceve la sua specificazione dall’oggetto. Se dunque si toglie l’inevidenza dalla realtà divina, viene meno la fede. Ma il Cristo nel primo istante del suo concepimento ebbe piena visione dell’essenza di Dio… Dunque non ci può essere stata fede in lui” (4).

Tutti i manuali scolastici, fino oltre la metà del secolo scorso hanno ripreso fedelmente questa dottrina. Anzi alcuni teologi giunsero a conclusioni, a dir poco, strane. La scuola carmelitana di Salamanca, ad esempio, attribuì a Gesù la conoscenza di tutte le verità naturali al punto da pensare che egli “non sia stato soltanto il migliore dialettico, filosofo, matematico, medico, moralista o politico, ma anche musicista, letterato, oratore, artigiano, agricoltore, pittore, navigatore, soldato e così via” (5). Senza giungere a questi eccessi altri hanno sostenuto che Gesù fin dall’inizio della sua esistenza terrena, conosceva almeno tutte le cose che riguardavano la sua missione o tutto ciò che in qualche modo aveva relazione con la storia della salvezza.

In questa relazione vorrei mostrare come progressivamente i teologi sono giunti a parlare della fede di Gesù e indicare, in modo sommario, quali profonde conseguenze questo cambiamento ha nell’attuale riflessione sul cammino storico di Gesù, sulla fedeltà all’annuncio del Regno e sullo sviluppo della fede nei suoi discepoli.

Lo faccio in cinque punti: 1. Un po’ di storia recente. 2. Gli argomenti di coloro che difendono la dottrina tradizionale. 3. I riferimenti biblici e la coerenza dogmatica di coloro che parlano della fede di Gesù. 4. Alcune riflessioni sull’oggetto della fede di Gesù e sulle sue dinamiche. 5. Alcuni riflessi nell’interpretazione dell’esperienza di Gesù e nella vita spirituale dei suoi discepoli.

1. Un po’ di storia recente.

Fino agli anni ’60 la teologia e il Magistero della chiesa cattolica attribuivano a Gesù un triplice modo di conoscere la realtà: la scienza beatifica, propria dei santi che godono della visione di Dio e in Lui conoscono tutte le cose, la scienza infusa, propria di alcune persone che, in vista di una particolare missione nella storia, in certe circostanze ricevono doni straordinari dello Spirito, e la scienza sperimentale, ottenuta con l’uso dei sensi e con la riflessione sulle esperienze quotidiane.

Forti resistenze a queste opinioni tradizionali apparvero alla fine del secolo XIX e agli inizi del sec. XX negli scritti dei ‘modernisti’. Nel Decreto Lamentabili (3 luglio 1907) il S. Uffizio condannava la loro dottrina riassunta in questa formula: “non è possibile conciliare il senso naturale dei testi dei vangeli con ciò che i nostri teologi insegnano riguardo alla coscienza e alla scienza infallibile di Gesù Cristo” (6). Condannata era pure l’opinione secondo cui: “il critico non può assegnare a Cristo una scienza illimitata, se non nell’ipotesi, che non è possibile concepire storicamente e che ripugna al senso morale, in cui Cristo abbia potuto avere come uomo la scienza di Dio e ciononostante non abbia voluto comunicare la cognizione di tante cose ai discepoli e alla posterità” (7). Un altro decreto dello stesso dicastero, il 5 giugno 1918, mostrava meno rigore sostenendo solo che si può insegnare con tranquillità (tuto doceri potest) l’opinione che “nell’anima del Cristo vivente fra gli uomini vi sia stata la scienza che possiedono i beati” (8). Ancora nell’Enciclica Mystici corporis (29 giugno 1943) Pio XII affermava che Gesù, in virtù di “quella visione beatifica di cui godeva fin dal momento in cui fu ricevuto nel seno della Madre divina”, aveva un’esplicita conoscenza degli uomini che sarebbero appartenuti al suo corpo mistico in ogni tempo e in ogni luogo. (9) Nel 1965, quando già, come vedremo, era iniziato un cammino teologico in altra direzione, un teologo italiano scriveva con molta decisione: “la dottrina che insegna che l’anima del Cristo dal primo istante della sua creazione godeva della visione beatifica, è dottrina comune nell’ordinario e universale insegnamento della chiesa docente e nel pacifico possesso della fede della chiesa discente. Deve dunque ritenersi come dottrina cattolica, e perciò di fede divina, mentre l’opinione contraria è da ritenersi almeno «haeresim sapiens», se non addirittura come eretica” (10).

In questi ultimi decenni, però, si è accentuata sempre di più il divario fra coloro che continuano a difendere la posizione tradizionale, più o meno adattata alle nuove acquisizioni bibliche, e coloro che, invece, riconoscono in Gesù un’autentica vita di fede.

Già all’inizio degli anni ‘960 Karl Rahner, riportando la dottrina scolastica sulla coscienza umana di Cristo, osservava: “Agli orecchi di noi moderni, questa affermazioni suonano a tutta prima con un timbro quasi mitologico. Sembrano contraddire all’autentica umanità e storicità del Signore; paiono essere in contrasto a prima vista insanabile con il dato scritturale che notifica una coscienza in fase di graduale sviluppo in Gesù (Lc 2,52), che ci mostra un Signore in atto di dichiarare di non sapere nulla proprio su cose decisive in materia soteriologica (Mt 24,36; Mc 13,32), che ci addita un Gesù influenzato sin nell’intimo dalla spiritualità e dalla religiosità del suo tempo” (11). K. Rahner da parte sua ha attribuito a Gesù una certa conoscenza immediata di Dio, ma di tipo non concettuale e quindi una conoscenza irriflessa, che non si traduceva, cioè, in concetti ed era perciò compatibile “con una genuina esperienza umana”, con l’ignoranza e “con un’autentica evoluzione spirituale e religiosa” (12). Rahner ha così offerto gli elementi per superare la frequente tenenza ad attribuire caratteristiche divine alla natura umana di Gesù, che egli stesso considerava un residuo dell’eresia monofisita (13), e per compiere passi ulteriori. Egli stesso aveva partecipato alla pubblicazione di un volume, in cui un suo discepolo difendeva con argomenti articolati la fede di Gesù. (14) In uno scritto successivo riconosceva che la teologia tradizionale non dava risalto, come invece è necessario fare, al “fatto che Gesù fosse uno che credeva, sperava, cercava ed era tentato, uno che si arrendeva inevitabilmente di fronte alla incomprensibilità di Dio” (15). L. Malevez, richiamandosi al metodo e ai principi di K. Rhaner ne svilupperà le implicazioni, applicandoli al cammino di fede di Gesù. (16)

Negli stessi anni (1961) anche Hans Urs von Balthasar ha affrontato in modo diretto il problema della fede di Gesù. (17) Richiamandosi a M. Buber, (18) egli ha valorizzato la distinzione tra fede come atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio, di cui Abramo era tipico rappresentante (partì senza sapere dove andava Eb. 11,8) e la fede dei cristiani, che si configurò ben presto come annuncio/accoglienza di un evento/verità da credere. Egli sostiene che il rapporto di Gesù storico con Dio non ha carattere beatifico, ma si esprime con un vero atteggiamento di fede che ha però un carattere singolare ed è accompagnato da una particolare conoscenza della sua condizione filiale e della sua missione. Egli riconosce che “questo atteggiamento prototipico è stato nel suo foro interiore così perfetto e quindi così inesprimibile che il designarlo con lo stesso termine in uso per l’imitazione che ne facciamo noi, rischia di sopprimere la distanza fra l’uno e l’altro” (19). In un tempo successivo, ammette la rilevanza della tradizione circa la visione beatifica, ma conclude che anche l’eventuale particolare conoscenza che Gesù aveva di Dio, in ordine alla sua missione, non gli impediva, anzi implicava l’esercizio della fede in Lui. (20)

I biblisti d’altra parte continuavano a mettere in luce che l’esistenza di Gesù come appare dai vangeli, è molto diversa da quella che i teologi descrivevano nelle loro manuali e nelle loro riflessioni. Egli, infatti, “cresceva in sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2, 52), ha cambiato opinione e non di rado ha assunto, come si è espresso Raymond. Brown “le idee inadeguate, anche erronee del suo tempo” (21).

2. Argomenti attuali in difesa della dottrina tradizionale

Nonostante le sollecitazioni dei biblisti e di molti teologi, la dottrina tradizionale ha conservato i suoi difensori. I teologi che oggi difendono la dottrina tradizionale hanno adattato gli argomenti alle acquisizioni bibliche. Nel 1982 la Pontificia Accademia di S. Tommaso dedicò una sessione al tema della fede di Gesù. Tutti, un biblista, un patrologo e un teologo sistematico, vi difesero la dottrina tradizionale. Gli atti sono stati pubblicati in un numero speciale della Rivista Doctor Comunis. (22)

Qualche anno fa Angelo Amato, allora professore di Cristologia all’Università salesiana di Roma, e ora Segretario della Congregazione per la Dottrina della fede, ha pubblicato un’ampia recensione di un volume che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Trento sulla fede di Gesù. (23) Egli, contro l’opinione dei relatori, non solo esamina e confuta le ragioni di chi crede di poter attribuire a Gesù una vera fede, ma argomenta dettagliatamente a favore della visione beatifica di Gesù. Secondo la sua convinzione, “si possono ridurre a tre le ragioni che fondano questa visione misteriosamente beatifica nel Gesù terreno, prepasquale: essa è un’esigenza intrinseca dell’unione ipostatica; (24) è il fondamento della sua missione rivelatrice e redentrice; non appare, infine, lesiva della sua autentica umanità, né rende meno dolorosa la passione, che il Verbo ha pienamente vissuto «in sacramento humanitatis»”. (25)

Commentando l’episodio della trasfigurazione scrive: “La luce che è Gesù non è quella profetica, ma quella stessa di Dio, che si manifesta anche nella sua umanità. La categoria teologica della visione beatifica del Cristo prepasquale non sembra quindi del tutto inadeguata per la comprensione della coscienza che Gesù ha di essere nel Padre”. (26) Concludendo poi l’analisi dei testi biblici scrive: “Il regime di esistenza terrena di Gesù, così come viene presentato nel NT, non sembra quindi escludere l’ipotesi di una visione beatifica. Né tale conclusione pregiudicherebbe la realtà e l’impegno di sofferenza del Figlio nella sua passione e morte”. (27) Egli pertanto considera “aprioristico il rifiuto” da parte di molti teologi attuali, della “visione immediata e beata del Padre nel Cristo prepasquale”. (28)

Quanto alla natura della visione egli osserva: “questa conoscenza immediata di Dio è certamente atematica, ma non per difetto, bensì per eccesso. Essa, infatti, è intrinsecamente ineffabile, perché «extracategoriale» e «metaconcettuale». Supera cioè per la ricchezza e l’inesauribilità del suo contenuto tutte le categorie concettuali del linguaggio umano. Più che indeterminazione atematica è quindi superdeterminazione e superconcentrazione tematica. Per cui paradossalmente la tematizzazione di questa visione mediata in categorie e linguaggio umano non rappresenta un progresso e un arricchimento, bensì una vera e propria kénosi e una involuzione, perché si va dal «di più» della conoscenza al «meno» della espressione e della formulazione. Di conseguenza l’indispensabile concettualizzazione, che questa visione sopracategoriale ha dovuto subire mediante la cosiddetta «scienza infusa», costituisce un misterioso processo kenotico. Il Cristo terreno vive in sé il passaggio dalla ricchezza della visione al continuo e intrinseco depauperamento della sua traduzione concettuale”. (29)

Amato conclude la sua analisi critica con l’affermazione: “La risposta allora alla domanda se in Gesù ci sia stata fede è negativa, sia da un punto di vista biblico, che da quello teologico. Nel NT Gesù non è mai presentato come il primo credente o come il modello della fede (Abramo per l’AT e Maria per il NT lo sono), bensì come colui che è la fonte e il fine della fede dei discepoli. Propriamente parlando, Gesù non ha la fede, ma suscita la fede. Se la nostra fede cristiana è fede in Gesù Cristo, Gesù non ha potuto avere la fede”. (30)

Torneremo più avanti sulla consistenza di queste argomentazioni. (31)

3. La fede di Gesù: argomenti biblici e coerenza dogmatica

In questi ultimi decenni è diventato sempre più folto il gruppo dei teologi che rifiutano l’opinione tradizionale e parlano della fede di Gesù. Il cambiamento non è stato improvviso ma è avvenuto a piccoli passi. Alcuni teologi hanno ammesso l’esercizio della fede anche nello stato di gloria; (32) altri hanno attribuito a Gesù una particolare intuizione di Dio compatibile con la fede, (33) altri hanno accentuato la dimensione filiale di Gesù e il corrispondente atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio, accompagnato da una particolare intuizione di Dio. (34) Infine altri sia biblisti che teologi senza difficoltà parlano di un autentico cammino di fede di Gesù, senza tentativi di conciliazione con la tradizione teologica. (35) Essi negano a Gesù conoscenze speciali non derivate dalla sua esperienza umana sperimentale o spirituale e gli attribuiscono un’autentica vita di fede, che è norma per il nostro cammino. In questo senso, secondo le formule della lettera agli Ebrei, Gesù è “apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1), “iniziatore e consumatore della nostra fede” (Eb.12, 2). Per costoro tutte le argomentazioni addotte dai teologi dei secoli scorsi, sia quelle di ispirazione biblica che quelle dogmatiche, erano valide solo se riferite alla condizione gloriosa di Cristo, ma non alla sua esistenza terrena.

Non mi fermo ad esaminare le varie posizioni. (36) Vorrei piuttosto presentare gli argomenti addotti sia quelli biblici (3.1) che quelli dogmatici (3.2). In un quarto paragrafo vorrei poi proporre una breve riflessione sull’oggetto della fede di Gesù e sulle sue dinamiche.

3.1. Argomenti biblici.

Abitualmente tutti affermano che nella Scrittura Gesù non è mai soggetto del verbo pisteuo, non si dice cioè che Gesù ha esercitato la fede o che ha creduto come si dice di Abramo o di Maria. Ma questo argomento negativo non è sufficiente a dimostrare l’assunto tradizionale. Vi sono infatti nel Nuovo Testamento numerose indicazioni relative all’esercizio della fede di Gesù.

Wilhelm Thüsing in un volume scritto insieme a K. Rahner scrive: “Della fede di Gesù stesso si parla nel NT almeno in due scritti, il Vangelo di Marco e nella lettera agli Ebrei; inoltre io credo di poter dimostrare l’esistenza di questo tòpos anche in Paolo”. (37) Del Vangelo di Marco egli cita l’episodio del ragazzo epilettico del cap. 9 (vv.14-29). Il Padre del ragazzo dice a Gesù: “se tu puoi fa qualcosa”. Gesù riprende la formula e, quasi riflettendo tra sé e sé esclama: “se tu puoi. Tutto è possibile per chi crede” (Mc. 9,23). Thüsing commenta: “In questo collegamento logico, soltanto Gesù può essere inteso come colui che crede, al quale, appunto attraverso la fede, la guarigione è possibile. Una conferma di ciò la troviamo alla fine della pericope, nel versetto 29, dove Gesù designa la preghiera come condizione dalla quale dipende la possibilità o l’impossibilità della guarigione”. (38) Anche Jon Sobrino che accetta questa argomentazione scrive: “In questo passo «chi crede» non è altri che Gesù stesso, il quale compie infatti il miracolo in base alla propria fede. Lo conferma il v. 29: «Questa specie di demoni non si può scacciare se non con la preghiera»: gli esegeti equiparano questa preghiera alla fede. Ciò che qui si afferma direttamente è dunque il fatto che Gesù possedette la forza proveniente dalla fede, mentre egli stesso viene indirettamente dichiarato come colui che ha fede.. Gesù – così almeno ha interpretato Marco- fa riferimento alla propria fede e viene dichiarato uomo di fede”. (39) L’argomentazione di Wilhelm Thüsing viene citata anche da Walter Kasper: “Qui la fede viene.. considerata come partecipazione all’onnipotenza di Dio e quindi come una capacità di ridonare la salute. Se teniamo presente lo sviluppo dei concetti del brano, dovremmo convenire che soltanto Gesù qui è «colui che crede» e che solo lui, proprio in forza della sua «fede», è capace di sanare… Nella sua radicale obbedienza Gesù è quindi la radicale originarietà da Dio e il radicale riferimento a Lui. Egli non è nulla da sé ma tutto da Dio e per Dio. È quindi la forma vuota, lo spazio aperto all’amore di Dio che si comunica.. La successiva cristologia della figliolanza non è altro che l’interpretazione e traduzione di ciò che si trova nascosto nell’obbedienza e donazione filiali di Gesù”. (40)

Non ci sono eccessive difficoltà a riconoscere la convinzione che secondo la Lettera agli Ebrei, Gesù abbia esercitato la fede. Egli viene riconosciuto “apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1) e “iniziatore e consumatore della fede” (Eb 12,2). L’autore riconosce che Gesù aveva introdotto una modalità nuova nell’esercizio della fede in Dio, aveva aperto una via particolare. I discepoli di Gesù erano appunto designati “quelli della via di Cristo” (cfr Atti 9,3). D’altra parte la stessa Lettera osserva che Gesù aveva imparato “l’obbedienza (= la fede, l’ascolto) dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (= che hanno fede in Lui)” (Eb., 5,8s.). Gesù ha reso così possibile un nuovo tipo di esperienza di Dio. “Si tratta dell’esperienza che la πίστις, in quanto fiducioso abbandonarsi al Dio della promessa, in quanto orientamento e in quanto resistenza nella situazione di tentazione, è possibile se si leva lo sguardo a colui che, in quanto credente (Eb 12,2) non solo incomincia l’esperienza di fede (come iniziatore oppure condottiero [α̉ρχηγός] della fede, ma anche la perfeziona”. (41) “Questo tuttavia non va inteso in maniera puramente esemplare, bensì prototipa e originaria: come colui che ha vissuto questa ‘fede’ in modo singolare e la cui fede adesso è pervenuta allo stato di ‘perennità’, egli da ai suoi la forza per questa fede – cioè (secondo il contesto di Eb. 12) per «la corsa senza posa» verso la meta della promessa”. (42)

Quanto a Paolo è interessante notare il valore di una sua formula singolare: πίστις Χριστoυ̃: fede di Cristo. Essa è presente 8 volte nelle sue lettere: Fil. 3,9, Rom. 3,22,26; Gal 2,16 (2 volte); Gal 2,20; Gal 3,22; Ef 3,12. (43)

Non è questo il luogo per una esegesi particolareggiata dei testi citati. (44) Presento solo velocemente il ventaglio delle interpretazioni e chiarisco la ragione di coloro che argomentano a favore della fede personale di Gesù.

Possiamo raggruppare le interpretazioni del sintagma genetivale πίστις Χριστoυ̃ in quattro gruppi:

a. senso oggettivo: la fede in Cristo. È questa l’interpretazione più tradizionale comune ai Padri greci, agli occidentali come S. Agostino e S. Tommaso. Anche Lutero interpreta Paolo in senso oggettivo. I commentari e le traduzioni più diffuse (la traduzione CEI sia nella prima redazione che nella recente revisione) interpretano la formula come la fede in Gesù Cristo.

b. Senso soggettivo: la fede esercitata da Gesù nei confronti del Padre; lo stile della sua fiducia in Dio, che ha influito sui discepoli e ha suscitato la loro fede. Diversi esegeti e teologi attuali come vedremo, interpretano a formula in questo senso.

c. Senso genetico o di autore: la fede suscitata da Cristo, sia nei confronti di Dio (perché da lui esercitata) sia nei suoi confronti: “abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv. 14,1).

d. Senso complesso: che racchiude diversi significati intrecciati in virtù dell’unione profonda che il discepolo ha con Cristo perché guidato dal suo Spirito. R. Vignolo la chiama fede di relazione e la descrive con queste parole: “fede attuata, istituita da Cristo, meglio ancora fede portata da Cristo; intendendo l’attuazione vuoi a Cristo come singolare soggetto di fede, vuoi a Cristo come istituente una fede correlata a lui, affidabilmente fondata su di lui”. (45) Egli osservando che “il sintagma così inteso svolge un ruolo di raccordo privilegiato nel contesto del pensiero paolino” ricorda in modo sommario altre interpretazioni complesse. (46)

Roberto Vignolo nel suo articolo molto attento ed accurato, osserva che “percentualmente nel corpo paolino largamente inteso (con eccezione di Eb. e prescindendo dai casi direttamente in questione) πίστις è seguita 29 volte da genitivo soggettivo e solo 3 volte da genitivo oggettivo. Evidentemente i genitivi di Rom 3,3; 4, 12.16 sono tutti soggettivi”. (47)

In conclusione credo che non si possa escludere il riferimento soggettivo nelle formule paoline citate. Altrimenti Paolo avrebbe scelto l’espressione πίστις ε̉ν Χριστω̃ Ίησου̃.

3.2. Coerenza dogmatica.

Tutte le argomentazioni, sia di carattere biblico che razionale, addotte dai teologi che difendono la dottrina tradizionale, valgono per lo stato glorioso di Cristo e non per la sua esistenza terrena. Argomentare ad es. che Cristo, come principio della beatitudine dei santi, deve possedere in sé, ciò che dona ai beati, ha una certa legittimità solo se riferita a Cristo co­stituito Messia e Signore (At. 2, 36), ma non vale per l’esistenza terrena di Gesù. Lo stesso può dirsi dell’argomentazione secondo cui Gesù deve possedere la pienezza della grazia (cfr. Gv.1,14) che comunica, o che in Lui “sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col. 2,3).

Molte sono le ragioni che hanno determinato l’attribuzione a Gesù della visione beatifica e alla conseguente negazione della fede. Ne ricordo alcune per rendere conto della deformazione subita dalla cristologia e dalla spiritualità.

In primo luogo si concepiva l’incarnazione come un evento istantaneo, perfetto fin dall’inizio; mentre è un processo che si compie nella risurrezione, quanto Gesù è stato costituito figlio di Dio con potenza per opera dello Spirito ( cfr. Rom 1,4).

Si pensava inoltre che la conoscenza umana potesse essere acquisita per infusione di specie intelligibili indipendentemente dall’esperienza. Mentre, nella prospettiva antropologica unitaria, propria dell’attuale cultura, anche quando è dono divino ogni conoscenza viene sempre filtrata dall’esperienza che soggiace.

Infine non si teneva conto sufficientemente della definizione del Concilio di Calcedonia, non molto nota in Occidente. Affermare infatti che l’unione ipostatica debba indurre una conoscenza peculiare in Gesù, significa non riconoscere il carattere peculiare dell’Unione ipostatica, che, secondo il Concilio avviene “senza mutazione e senza confusione” (asynxùtos, atréptos). La natura umana perciò conserva le caratteristiche e le dinamiche proprie come la natura divina del Verbo conserva le proprie.

L’opinione che attribuisce a Gesù storico la visione beatifica si è potuta sviluppare quindi solo in ambito neocalcedonese o, come altri dicono, in “una prospettiva cristologica alessandrina”. (48)

Alcuni cambiamenti avvenuti nella teologia ci consentono oggi di prospettare diversamente il cammino di Gesù. P. A. Sequeri ne privilegia due: “L’elaborazione più approfondita del carattere integralmente storico della incarnazione e il ricupero della più sostanziale nozione di fede come principio di una relazione di totale adesione sostanziale a Dio, consentono oggi di apprezzare l’importanza di quella indicazione, senza pregiudizio (anzi) per la comprensione dogmatica della singolarità e unicità della identificazione di Gesù con il Figlio”. (49)

La cosa che sorprende è il tipo di vita umana che, secondo l’opinione tradizionale, Gesù avrebbe condotto nell’ipotesi che Egli fin dall’inizio, vedesse tutto in Dio. La sua attività si sarebbe svolta come la recita di un copione già scritto, pur coinvolgendo in profondità tutte le sue facoltà umane. Come un attore che entra nella sua parte in modo integrale e fedele, Gesù si sarebbe confrontato continuamente con la volontà del Padre e avrebbe fedelmente seguito la sua parola. Questo modo di leggere l’avventura di Gesù svuotava di significato molti racconti evangelici e caricava alcuni altri di messaggi aggiuntivi, spesso deformanti. Ne derivava una lettura della storia di Gesù per molti aspetti falsata. La riflessione di Gesù in ordine alle scelte da compiere, la valutazione delle circostanze e la sua preghiera per scegliere con coerenza non avevano alcuna rilevanza, anzi erano completamente trascurate dai biblisti e dai teologi. Maritain parlava di una “parodia di umanità”. (50)

Jon Sobrino osserva poi che nella scolastica si era giunti in modo sorprendente a considerare la fede come non costitutiva della condizione umana. Se non si attribuisce la fede a Gesù, egli scrive: “Lo si potrà chiamare uno di noi, ma nel profondo della realtà umana non è come noi. Si potrà far risaltare l’umanità di Gesù a vari livelli, personale-esistenziale, anche sociale e persino politico, ma se non si accetta la sua fede, Gesù resta infinitamente distante da noi e – paradossalmente per la teologia – significherebbe dire che la fede non è essenziale per definire la realtà umana”. (51)

La fede è la prima incidenza dell’azione divina nella vita degli uomini. Sarebbe insensato pensare che l’azione di Dio in Gesù non abbia suscitato l’atteggiamento di accoglienza e di ascolto che è appunto la fede. Anche la conoscenza di Dio in Gesù è stata progressiva: Egli ha imparato a pregare, a leggere le Scritture, a conoscere la tradizione del suo popolo. Attraverso questo percorso Egli è diventato “la figura riuscita del perfetto credente”. (52) La fede in Dio ha raggiunto in Gesù una ricchezza tale da consentire l’acquisizione definitiva del “Nome”. “In questa prospettiva la fede di Gesù diventa il principio stesso della modalità rivelativa e storica dell’incarnazione; e al tempo stesso il fondamento di quella relazione che attua il regno nella sua persona”. (53)

Infine nel considerare la fede e le sue dinamiche non ha senso opporre l’atteggiamento vitale di abbandono fiducioso e la conoscenza. Questa infatti si sviluppa solo all’interno dell’esperienza di fede che fiorisce nell’amore. Anche per Gesù vale il principio ricordato da Giovanni: “chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio” (1 Gv. 4,7). Anche Gesù è cresciuto nella conoscenza di Dio attraverso la vita teologale, l’esercizio cioè della fiducia in Dio che in lui fioriva come amore.


(continua)

 

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Pubblicato da Gioacchino La Greca

Sono nato il 27 novembre 1958, in un piccolo centro della provincia di Agrigento, la terra cara agli dei immortali che Pindaro descrisse come coloro che vivevano giorno per giorno come se dovessero morire l'indomani e costruivano come se dovessero vivere in eterno. Sono un medico, esercito in una cittadina centro agricolo un tempo prosperoso famoso per il prodotto DOP UVA ITALIA, per i vini, e per il barocco. Il mio blog è la raccolta estremamente varia di ciò che penso, facoltà che mi avvalgo di usare anche a mio discapito, messo per iscritto per non disperdere nel tempo il valore del pensiero che ognuno di noi coltiva dentro e che non può andare ad annullarsi nell'eterno mistero dell'essere. Ma che abbiamo l'obbligo di passare alle generazioni future come patrimonio spirituale.