la casa sulla collina

La finestra da cui si affaccia la mia scrivania si apre  su un ampio spazio di Sicilia, e ciò che è possibile vedere è come un paesaggio incorniciato su una tela infinita, al cui fondo ci sono sotto un limpido cielo azzurrognolo, colline verdeggianti che degradano sfumando verso un mare che non si vede, ma che fa sentire il suo odore anche a 15 km di distanza in linea d’aria, e che si immagina a secondo del periodo dell’anno cangiante nei vari toni di azzurro cobalto e verde smeraldo che sono i suoi colori di fondo. Ora più o meno agitati o mossi dai venti di scirocco o libeccio che investono la costa di Licata per gran parte dell’anno. Man mano lo sguardo si avvicina alla cornice della finestra si cominciano a scorgere in lontananza i filari di secolari olivi verdeggianti che offrono la loro pastosa ombra nelle giornate assolate di luglio. Più in qua gli ordinati filari dei mandorli sembrano invitare l’astante a trascorrere un poco di tempo  con loro, a rimirare la bellezza del luogo e dei fiori bianchi e profumati, candidi come la neve. Ogni tanto qualche petalo si stacca dal ramo, e lentamente simile a fiocco delicato di neve si posa per terra finendo il dolce planare tra le zolle umide e fragranti. Sotto casa, nello spiazzo antistante strappato alla rigogliosa vegetazione che un tempo la circondava da ogni lato, i cani sonnecchiano vigili, uno di fronte l’altro, alzando ogni tanto un orecchio a captare rumori che soltanto il loro udito può percepire. Mentre invece quello che sento ben distinto è un cinguettìo di uccelli che tra i rami di un vecchio mandorlo e alberi di  noci giocano e lottano per la vita. Una leggere brezza entra dalle finestre a scuotere leggermente le tende colorate, e il mio viso sembra giovarsene, quasi cercasse la perduta freschezza di un tempo tra quei soffi di Borea che dolce e gentile un giorno Omero cantò come il vento che spingeva l’eroe Odisseo verso l’agognata Itaca. Anche io cerco l’approdo, forse adesso è vicino, molto più di quanto non mi sembri. Il sonnacchioso meriggio assolato di Marzo, come solo da queste parti sa essere il mese della primavera incipiente, caldo e accogliente come l’abbraccio di una amata, posa sui miei occhi pesanti e stanchi il sacro umore di Morfeo, che sa dare pace e tranquillità agli umani affanni, lui che nutrendosi di nettare e ambrosia siede al consesso degli immortali e fa dono alle pene e ai dolori degli uomini di questo dolce oblio che si chiama sonno. L’antico pozzo che raccoglie da moltissimi anni l’acqua dal cielo piovuta, scavata da ingegnose mani quando non c’erano mezzi meccanici, si sprofonda per 6 o 7 metri dalla sua apertura chiusa da una antica lastra di ferro lamierato, ancora originale essendo quella di molti decenni prima quando fu posta a chiusa della cisterna. A vederla adesso è un innocuo cubo geometrico sovrastato da un archetto di ferro battuto alla cui cima si fissava la caruncola col secchio. Io bambino mi sporgevo dal bordo, tenendo in ansia le zie che mi accudivano e sorvegliavano, temendo che potessi precipitarvi. Ma più loro si raccomandavano di stare lontano più io mi divertivo ad avvicinarmi al bordo e guardare i riflessi dell’acqua e ascoltare beato il rumore che essa produceva cadendo dal secchio che risaliva colmo del prezioso e fresco liquido. Eppure quel pozzo non era solo fonte di gaudio e giocosità per me ragazzino. Ci fu un periodo della mia pur felice infanzia, che esso era visto da me come un nero buco che mi ispirava terrore, e talvolta di notte gli incubi infantili, con me che vi precipitavo dentro, avevano il sopravvento. Non furono poche le volte che tali visioni terrifiche mi fecero svegliare di soprassalto avvolto da un madido sudore, interrompendo incubi paurosi. Era successo che un tempo in cui io ero ancora nell’età dell’incoscienza, ma abbastanza per capire e ricordare, mentre ero sulla porta di casa e di bottega  di mia zia  verso il far della sera, vidi spuntare dalla strada sulla mia destra,  la curva di fronte il panificio, uno strano corteo parentale, guidato da una mia cugina che era la più esagitata del gruppo, con a fianco un signore in divisa, e poi via via i miei genitori, tranquilli ma severi in viso, zii e un paio di cugini. La loro vista non mi stupì, ma quasi istintivamente rientrai dentro e furtivo mi nascosi sotto o dentro l’enorme banco da lavoro di mia zia, che essendo chiuso sul davanti mi avrebbe celato alla vista di tutti. Mia zia che stava a cucire e tagliare vestiti, mi guardò curiosa, ma non ebbe tempo di chiedere nulla perché bussò l’uomo in divisa. Ricordo l’invito ad entrare con la voce tagliente e canora di mia zia che non sospettava la sorpresa, ma io sentii tutto e ricordo parte dei dialoghi. Il maresciallo,  dei carabinieri, conosceva mia zia, e molto cortesemente le chiese di me e per quale motivo io non fossi con i miei genitori. Mia zia disse che io ero li spontaneamente, e che mamma e papà erano d’accordo a farlo stare con lei, non capiva il perché adesso della richiesta. Parlò il maresciallo: “Signora , io la conosco personalmente e so il suo valore, ma i suoi parenti qui l’accusano che lei tiene il ragazzino contro la volontà dei genitori i quali vogliono adesso che torni a casa perché temono per la salute del bambino. E non credo che lei li abbia mai minacciati con una pistola”.  Incredibile, una accusa stupefacente, ancora oggi mi chiedo come fu possibile che mia zia, di solito focosa e intemperante avesse reagito con quella serafica calma. “Iachinù- mi chiamava così,- per quale motivo sei qui”? Io timidamente usci dal bancone e feci capolino con la testolina bionda e gli occhi vispi, birichini, e risposi: Perché qui mi piace, e non c’è nessuno che mi picchia”, piccola bugia all’indirizzo dei fratelli che per la verità non hanno mai alzato un dito su di me. Mia mamma mi chiamò a se e io le andai docile vicino, non senza cercare un consenso dallo sguardo di mia zia, che arrivò. Però le dissi che non andavo via con tutto quel corteo, lo avrei fatto dopo, con più calma, quando tutto sarebbe finito. In quel momento udii una voce gracchiante da fuori, che già dentro eravamo in tanti, che mi esortava ad andare via da li perché la zia voleva nascondermi nel pozzo in campagna pur di non consegnarmi ai miei genitori. Quella stridula voce gracchiante il falso, mi rimase impressa nella testolina per molti anni ancora, e questo era all’origine dei miei incubi infantili. Ci pensò poi l’età e la maturità a farli scomparire, portando con loro però altre vicende che la vita non lesina a nessuno e che adesso potrei far scorrere come in un film in bianco e nero.

/ 5
Grazie per aver votato!

Pubblicato da Gioacchino La Greca

Sono nato il 27 novembre 1958, in un piccolo centro della provincia di Agrigento, la terra cara agli dei immortali che Pindaro descrisse come coloro che vivevano giorno per giorno come se dovessero morire l'indomani e costruivano come se dovessero vivere in eterno. Sono un medico, esercito in una cittadina centro agricolo un tempo prosperoso famoso per il prodotto DOP UVA ITALIA, per i vini, e per il barocco. Il mio blog è la raccolta estremamente varia di ciò che penso, facoltà che mi avvalgo di usare anche a mio discapito, messo per iscritto per non disperdere nel tempo il valore del pensiero che ognuno di noi coltiva dentro e che non può andare ad annullarsi nell'eterno mistero dell'essere. Ma che abbiamo l'obbligo di passare alle generazioni future come patrimonio spirituale.