Diceva Cechov che quando in un dramma compare una pistola, questa prima o poi è destinata a sparare. In questo romanzo compare all’inizio la scritta ” ante mortem”, e la morte non allora esimersi dall’essere la vera protagonista. Essa traccia una sottile ma visibile linea rossa e violenta dall’inizio alla fine, quando la logica conclusione non può che essere titolata “post mortem”. Luigi Balocchi descrive così con tocchi veloci e rapidi, una serie di morti violente che dall’inizio alla fine, sotto forma di efferati delitti o truculenti suicidi, caratterizzano il romanzo, catturando il lettore in un drammatico susseguirsi di eventi. Tutti episodi che come un profondo buco nero ci attirano verso il basso, verso quegli abissi oscuri della anima umana, che svela la sua faccia più nascosta e terribile. Quella che i padri latini hanno definito homo homini lupus. E in effetti di lupi si parla e di lupe, quelle bestie sataniche assetate di sangue e di sesso, che noi alberghiamo nel nostro abisso e che spesso non abbiamo il coraggio di guardare in faccia e chiamarlo col suo vero nome, perché abbiamo paura del male, il male spirituale. Quello che solo l’uomo può compiere e perpetrare ai suoi simili, in virtù della libertà che ci chiama a scegliere tra il male e il bene. L’autore è bravo a districare la matassa del romanzo e a incunearsi nei vicoli oscuri e tenebrosi delle città protagoniste, che tra le loro nebbie e le loro tremolanti luci sembrano la fotografia delle anime degli uomini che alternano luce e buio totale. Non c’è salvezza per nessuno dei protagonisti, almeno per coloro che non hanno saputo elevarsi al di la del bene e del male, e si sono trovati faccia a faccia con il vizio e la concupiscenza che ne succhia il midollo e ne assorbe le energie fisiche e spirituali. Crolla chi non ha l’anima avvezza, resiste e vince chi si nutre di essi e offre se stesso all’altare del lupo che è in noi. La bestia è forte e vince, e la morte arriva come consolante liberatrice
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