Dio e il suo destino 56

CONCENTRATO SOLO SUL PRESENTE E L’IMMEDIATO FUTURO
Ciò che anzitutto appare leggendo i Vangeli è che a Gesù interessava ben poco la storia di Yhwh con il suo popolo: egli non menziona mai né l’evento centrale della liberazionr dell’Egitto, né l’istituzione dell’alleanza sul Sinai, né la conquista della terra promessa, né l’esilio a Babilonia, né il ritorno a Gerusalemme dopo l’editto di Ciro, né alcun altro degli episodi della storia di Israele. I suoi riferimenti ad Abramo, a Mosè e ai profeti sono sempre in funzione del presente o del futuro, talora non privi di una certa criticità, come per esempio quando dice: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli» (Matteo 19,8). A Gesù sta a cuore unicamente il presente, per lui Dio è legato non alla storia passata ma alla più stretta attualità, i tempi verbali mediante cui pensa il divino sono il presente e il più imminente futuro, quello che in italiano rendiamo non con il futuro semplice («pioverà») ma con la forma composta stare per infinito («sta per piovere») a indicare l’imminenza dell’azione. Sono paradigmatiche le parole che il primo evangelista presenta quale nucleo della sua predicazione: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Marco 1,15); o anche quelle pronunciate nella sinagoga di Nazaret dopo aver letto le promesse di liberazione di Isaia: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Luca 4,21).
Da dove traeva Gesù la sicurezza che gli faceva avanzare la pretesa di rappresentare il compimento di un’attesa di secoli? La teologia tradizionale rispondeva indicando la sua natura divina, che da un lato lo metteva in diretta comunicazione con Dio Padre così da averne una permanente e immediata visione (visio beatifica) e, dall’altro, gli consegnava un sapere assoluto su ogni ambito del reale, prospettiva in base a cui Gesù avrebbe avuto un perfetto sapere su Dio e un perfetto sapere sull’universalità dei fenomeni del mondo. Così ne scriveva Michael Schmaus, che fu professore di dogmatica di Joseph Ratzinger: «La maggioranza dei teologi con ragione insegnano che già durante il pellegrinaggio terreno egli godeva della visione immediata di Dio»; e ancora: «La maggioranza dei teologi afferma che egli conosceva, senza errori, tutto il reale sia presente, che passato e futuro»). In perfetta coerenza con questa visione delle cose il Magistero cattolico giunse nel secolo scorso a condannare ogni prospettiva che neghi o minimizzi la «scienza infallibile di Gesù Cristo» (cfr. DH 3432).
Si tratta però di una prospettiva oggi ampiamente abbandonata dalla teologia perché rende impossibile concepire la reale umanità di Gesù. Essere uomo, infatti, non significa solo avere un corpo umano, ma significa ancor più una psiche e una coscienza umane, le quali semplicemente non sarebbero potute esistere se nella mente di Gesù vi fosse stata la perfetta visione di Dio e il perfetto sapere sul mondo. Eccessivamente preoccupata di rendere gloria alla divinità di Cristo, la teologia tradizionale finiva per oscurarne la vera umanità, con il risultato di avvicinarsi pericolosamente all’eresia più insidiosa in campo cristologico: il monofisismo, cioè l’attribuzione a Gesù unicamente della natura divina. Una prospettiva che, con la volontà di glorificare la sua divinità, finisce paradossalmente per rendere vana la sua incarnazione, perché nega la sua vera umanità e quindi il senso stesso del cristianesimo. In realtà la natura divina di Gesù non può andare a scapito della sua condizione di vero uomo, la quale prevede necessariamente ignoranza e apprendimento mediante esperienza, perché solo a queste condizioni si è veramente un essere umano e si parla realmente di incarnazione di Dio senza ridurla a un gioco di prestigio.
Torna quindi la questione della fonte da cui Gesù traeva la certezza che con lui sarebbe giunto il regno di Dio destinato peraltro a realizzarsi nell’immediato:
In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno (Matteo 16,28).
E ancora:
In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga (Marco 13,30).
Gesù pensava, sbagliando, che il regno di Dio si sarebbe compiuto da un giorno all’altro mettendo fine alla storia; e pensava che in tale avvento del regno divino il suo ruolo avrebbe avuto un’importanza fondamentale, in quanto egli probabilmente si identificava con la misteriosa figura di «figlio di uomo» di cui aveva parlato Daniele:
Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto (Daniele 7,13-14).
Questa era la fede fondamentale di Gesù: il compimento delle antiche promesse profetiche per un mondo finalmente giusto. Questo significa che quando Gesù pregava il Padre non aveva nessuna immediata visione beatifica che lo mettesse a contatto con la realtà divina in sé e per sé, e che quindi nella sua mente autenticamente umana si andavano formando per forza immagini soggettivamente elaborate e talora anche convinzioni poi rivelatesi errate. Torna quindi la domanda: qual era la sua immagine del Padre? Ho già annunciato la mia risposta, cioè che l’immagine di Dio che aveva Gesù riproduce pressoché integralmente la figura teologica da me denominata Deus. Ora presenterò le mie argomentazioni. (Vito Mancuso, “Dio e il suo destino”)
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Pubblicato da Gioacchino La Greca

Sono nato il 27 novembre 1958, in un piccolo centro della provincia di Agrigento, la terra cara agli dei immortali che Pindaro descrisse come coloro che vivevano giorno per giorno come se dovessero morire l'indomani e costruivano come se dovessero vivere in eterno. Sono un medico, esercito in una cittadina centro agricolo un tempo prosperoso famoso per il prodotto DOP UVA ITALIA, per i vini, e per il barocco. Il mio blog è la raccolta estremamente varia di ciò che penso, facoltà che mi avvalgo di usare anche a mio discapito, messo per iscritto per non disperdere nel tempo il valore del pensiero che ognuno di noi coltiva dentro e che non può andare ad annullarsi nell'eterno mistero dell'essere. Ma che abbiamo l'obbligo di passare alle generazioni future come patrimonio spirituale.