MORTE, OVVERO LA DOMANDA SE SIA UN MALE OPPURE NO, di Vito Mancuso

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Lungi dal voler essere una presentazione organica ed esaustiva della dottrina teologica sui novissimi, per la quale occorrerebbe un libro a sé e non poco voluminoso, i capitoli che seguono da qui alla Conclusione intendono proporre solo alcuni spunti critici in vista del necessario ripensamento dell’escatologia auspicato dal cardinal Ruini e di cui credo ogni cristiano senta il bisogno. Allo stato attuale, infatti, il pensiero non riesce a trattenersi sulla dottrina concernente il destino eterno dell’anima senza incontrare una serie di dubbi che generano incertezza e incredulità. Seguendo l’ordine tradizionale, inizio la trattazione dalla morte e dal giudizio, quel giudizio particolare cui secondo la fede cristiana ogni singolo verrà sottoposto subito dopo la morte del corpo.
Gli uomini pensano generalmente che la morte sia un male, anzi che sia il male. La concezione più diffusa all’interno del Cristianesimo condivide questa prospettiva mediante l’affermazione che la morte è entrata nel mondo attraverso il peccato e che la redenzione consiste nell’eliminazione del peccato generatore della morte, e quindi della morte. Gli uomini, anche la maggioranza dei cristiani, pensano che la morte sia il male per eccellenza.
L’idea che la morte sia una conseguenza del peccato è stata espressa formalmente dal libro biblico della Sapienza dove si dice che Dio non ha creato la morte, ma che essa è stata introdotta dal Diavolo: “Dio ha creato l’uomo per l’immortalità… ma la morte è entrata nel mondo per invidia del Diavolo” (Sapienza 2 , 24). Si tratta di un passo che è divenuto particolarmente importante all’interno del Cristianesimo a causa dell’uso che ne ha fatto san Paolo nella Lettera ai Romani per fondare la salvezza come redenzione. Nel più importante scritto paolino si legge: “Quindi, come a causa di un solo uomo [Adamo] il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini perché tutti hanno peccato” (Romani 5, 12). Prescindendo dalle infinite discussioni esegetiche e dogmatiche su questa affermazione, ciò che qui è importante sottolineare è la ripresa da parte di san Paolo del diretto legame causale tra peccato e morte. Se nel mondo c’è la morte, egli dice, è perché prima c’è stato il peccato dell’uomo. Se non ci fosse stato il peccato di Adamo, non ci sarebbe stata la morte, che Dio non ha né voluto né creato. Il peccato è la causa, la morte è l’effetto; il male è la dimensione ontologica ed etica che li accomuna. In questa prospettiva dire morte è la stessa cosa che dire peccato e male.
Altri libri biblici, però, presuppongono che sia stato Dio a istituire la morte, l’abbia istituita come limite. Il Siracide scrive che essa “è il decreto del Signore per ogni uomo” (Siracide 41, 4) e invita a non ribellarvisi. Commentando il versetto a compimento della creazione in Genesi 1, 31 (“Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”) l’edizione della Torah a cura dell’Ebraismo conservatore americano scrive che “molto buona include anche l’inevitabilità della morte: tov mot, la morte è buona”. Se così del resto non fosse, si farebbe fatica a comprendere come Dio possa fare così gran uso della morte, come appare da numerosi passi biblici, per esempio Deuteronomio 32, 39 (“Sono io che do la morte e faccio vivere”), 1 Samuele 2, 6 (“Il Signore fa morire e fa vivere” ), Siracide 11, 14 (Bene e male, vita e morte, povertà e ricchezza, tutto proviene dal Signore, e come afferma anche Sapienza “Tu hai potere sulla vita e sulla morte”. Nelle pagine della Bibbia la morte in quanto data, minacciata o revocata è uno degli strumenti privilegiati mediante cui Dio governa il mondo. Ne viene che, a meno di non attribuire a Dio il principio moralmente deprecabile del fine che giustifica i mezzi in quanto farebbe uso del male per ottenere il bene, secondo quest’altra prospettiva (maggioritaria nella Bibbia ebraica) la morte non è da ritenersi ontologicamente malvagia e non è quindi frutto del peccato. Essa è “il decreto del Signore per ogni uomo”. Dire morte, quindi, non è la stessa cosa che dire male o peccato. La morte è piuttosto solo il limite dell’esistenza umana, un limite certamente drammatico e talora ingiusto nella sua concreta modalità (non è giusto morire a sedici anni), ma in sé giusto, in quanto è giusto che un limite della vita ci sia (è solo la presenza di un limite che può rendere qualcosa perfetto, come insegna l’estetica classica).
Siamo quindi in presenza di una contraddizione: vi è un prospettiva biblica che pensa la morte come introdotta dal Diavolo e quindi ontologicamente cattiva, e ve n’è un’altra che la pensa come istituita da Dio e quindi ontologicamente buona. Come se ne esce? Se ne esce solo distinguendo, all’interno di diversi concetti veicolati dall’unico termine, la morte come fine della vita terrena dalla morte come distruzione definitiva della personalità. Nella prima accezione la morte è istituita da Dio con la creazione stessa della vita, di questa concreta modalità di vita basata sul carbonio e quindi necessariamente mortale; nella seconda accezione la morte è frutto del peccato e della trasgressione dell’ordine che governa il mondo. Occorre distinguere con attenzione queste due dimensioni, tra loro non solo differenti ma anche contrastanti: la morte come fine della vita terrena non ha nulla a che fare con la morte come distruzione definitiva del destino di vita, la cosiddetta “morte seconda”, ho thanatos ho deuteros, nominata quattro volte dall’Apocalisse (2, 11; 20, 6; 20, 14; 21,8 ). La prima non va valutata negativamente, la seconda sì.
Per quanto nel suo darsi concreto la fine della vita terrena sia spesso associata al male sotto forma di malattie o incidenti o mille altre fatalità, e per quanto vada compiuto il possibile per ritardarla, questa morte non è un male, né tanto meno è il male. Nella sua concretezza può causare dolore, quasi sempre lo causa, talora il più lacerante dei dolori che a un essere umano possa essere dato. Ma in sé la fine della vita rimane un evento naturale, conforme alla logica dell’essere del mondo che si esprime come divenire. Di questa logica la morte non è una corruzione o un tradimento, ma una normale espressione. Della fine della vita naturale non si può parlare come male, perché in essa non c’è odio verso la vita in sé, verso la sua luce e la sua giustizia. È come l’ultima pagina di un libro, necessaria nel suo darsi nel momento stesso in cui si comincia a scrivere la prima. Vi sono libri lunghi, libri brevi e anche libri incompiuti, ma non per questo meno interessanti, anzi “proprio il frammento può rinviare a un compimento più alto, non più realizzabile dall’uomo”. La morte terrena gioca un ruolo tanto essenziale nello sviluppo della vita che non può non provenire necessariamente dall’ordine dell’essere, cioè da Dio, e quindi risultare funzionale al bene. Come sarebbe possibile che la legge suprema che governa il mondo, cioè il divenire che si nutre della vita e della morte, non sia stata posta dal Principio Ordinatore? Chi pensa che la morte sia espressione del male legandola a Satana, istituisce un contropotere negativo altrettanto potente di quello divino e da esso del tutto indipendente. Divide l’essere in due. C’è molto più manicheismo di quanto si pensi nelle menti di molti contemporanei, cattolici e non. Ma se si vuole pensare – l’essere come unitario (se si aderisce cioè al monoteismo), è inevitabile ritenere che la fine della vita appartenga alla dimensione del divino tanto quanto il suo inizio; anzi, a causa della spiritualizzazione intercorsa, addirittura di più.
Se a proposito della morte terrena fosse vera la sua stretta dipendenza dal peccato, dovrebbe inoltre logicamente conseguire che accettare la morte equivale ad accettare il peccato e che quindi i più grandi uomini spirituali, che hanno insegnato ad accettare la morte, a vivere la vita come preparazione alla morte sono caduti in errore. In realtà, è vero il contrario, e il pensiero che lega direttamente la morte al peccato, nella misura in cui si riferisce non alla “morte seconda” ma alla fine della vita terrena, segnala uno sviluppo ancora immaturo della coscienza spirituale. La morte in quanto fine della vita terrena va ricondotta non al peccato ma alla vita, è una conseguenza diretta e necessaria del darsi della vita, di questa vita naturale, così meravigliosa ma anche così fragile, che si afferma solo negando se stessa. Lo si vede già nel singolo organismo umano, dove la crescita cellulare è possibile solo mediante il fenomeno dell’apoptosi o morte cellulare, attraverso il quale le cellule che prima erano nate ora si danno la morte per lasciare il posto ad altre cellule, le quali nasceranno per poi a loro volta morire, e così di seguito nella costruzione di questo processo che chiamiamo vivere ma che sarebbe altrettanto corretto chiamare morire. Lo mostra anche la catena alimentare, che produce vita solo mediante la morte di altri esseri viventi, a partire dall’erba dei prati uccisa dal brucare delle pecore, fino all’uomo che per nutrire se stesso e i suoi figli elimina, e non può fare altrimenti, piante e animali. Si tratta di una necessità iscritta nella configurazione concreta della vita, di cui l’immagine neotestamentaria dell’agnello immolato dalla fondazione del mondo è una profonda intuizione. La posizione della vita comporta necessariamente la posizione della morte, e per questo il Logos creatore può essere pensato contemporaneamente come agnello sgozzato. Anche noi, quando mettiamo al mondo un figlio, lo condanniamo per ciò stesso a morire. Questa necessità del negativo, accanto allo splendore della positività dell’essere, viene espressa dalle due concezioni opposte della creazione che si ritrovano nella Bibbia, quella classica, maggioritaria, che dice ordine e armonia, e questa seconda, tragica e oscura, che dice disordine e disarmonia, e annuncia che Dio, fin dall’inizio, per porre l’essere ha pagato col sangue del Figlio: la creazione come perfetto lavoro divino, e la creazione come sanguinoso sacrificio divino. Queste teologie, entrambe presenti nella Bibbia, sono tutte e due vere, perché è vero l’ordine ed è vero il disordine. Il loro insieme genera l’antinomia che è alla guida del mondo e dalla quale a noi, qui e ora, è dato di uscire solo misticamente, non nel senso che si hanno chissà quali visioni, ma nel senso che si sceglie unilateralmente la vita e il bene, li si sceglie anche quando di per sé il puro e semplice calcolo porterebbe ad agire altrimenti, li si sceglie per amore. L’uomo che agisce così scioglie l’antinomia dentro cui è nato perché conosce un solo nomos, il bene.
Vi è, infine, un’ultima considerazione che porta a escludere la dipendenza della morte dal peccato e a ritenerla, quale effettivamente è, parte intrinseca della logica della vita. Oggi è noto che la vita nell’universo è arrivata ben prima della comparsa dell’uomo, esiste da circa quattro miliardi di anni, mentre l’inizio della specie Homo sapièns, alla quale presumibilmente Adamo apparteneva, risale a 160.000 anni fa. Da quattro miliardi di anni c’è la vita, ma non c’è mai stata senza morte, essendo fin dall’inizio la morte di alcuni la condizione per la vita di altri (la catena alimentare). La morte, quindi, c’è ben prima di Adamo e del suo presunto peccato. La morte ha iniziato a esistere nel momento stesso in cui è esistita la vita. Accettare la vita significa, perciò, accettare che sia intrinsecamente mortale, e non a causa di Adamo e del suo peccato (a meno forse di supporre che Adamo sia stato il primo dei microrganismi con cui è iniziata la vita, e ricondurre a questo microbo il peccato originale). (Mancuso, L’anima e il suo destino).

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Pubblicato da Gioacchino La Greca

Sono nato il 27 novembre 1958, in un piccolo centro della provincia di Agrigento, la terra cara agli dei immortali che Pindaro descrisse come coloro che vivevano giorno per giorno come se dovessero morire l'indomani e costruivano come se dovessero vivere in eterno. Sono un medico, esercito in una cittadina centro agricolo un tempo prosperoso famoso per il prodotto DOP UVA ITALIA, per i vini, e per il barocco. Il mio blog è la raccolta estremamente varia di ciò che penso, facoltà che mi avvalgo di usare anche a mio discapito, messo per iscritto per non disperdere nel tempo il valore del pensiero che ognuno di noi coltiva dentro e che non può andare ad annullarsi nell'eterno mistero dell'essere. Ma che abbiamo l'obbligo di passare alle generazioni future come patrimonio spirituale.