IL DIO IN CUI CREDO di Carlo Molari

Attendere la Vita perché possa accadere

Dio nessuno l’ha mai visto. Il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha narrato” (exeghèseto, dice il greco, ne ha fatto l’esegesi). Ne ha fatto l’esegesi durante la storia, ha narrato il Padre cominciando dalla creazione e poi negli eventi della storia di salvezza – Noè, Abramo, Mosè e così via – attraverso i quali i figli di Dio “non da sangue né da carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”. Nel senso che il Verbo eterno, la forza di vita che alimenta la nostra storia, è giunta a far fiorire qualità umane inedite. Questa narrazione di Dio lungo la storia per opera del Verbo continua ancora: ancora devono sorgere figli di Dio che fanno diffondere nel mondo e nella storia umana, qualità nuove di fraternità, di condivisione, di giustizia, di pace. Questo è il cammino in cui noi siamo inseriti, ma che trova continuamente degli ostacoli anche da parte di chi si fida di Dio. Perché molte volte, siccome facciamo confusione e identifichiamo la realtà di Dio con le sue immagini, che diventano idoli, impediamo questa narrazione armonica. Ma dobbiamo tenere presente che in questa storia di salvezza, attraverso la quale Dio viene narrato, noi siamo gli attori.

Prima di entrare nell’analisi di tre aspetti che voglio mettere in luce – il Dio della vita, il Dio della misericordia, il Dio della resurrezione – faccio due premesse di tipo metodologico. La prima. Quando parliamo della rivelazione, cioè del Dio rivelato in Gesù, non ci riferiamo tanto a ciò che Gesù ha detto di Dio, alle dottrine che Egli ha insegnato, ma alla sua avventura di vita, a quello che Egli ha inserito nella storia vivendo, al rapporto che ha vissuto con Dio. È la sua realtà presente nella storia che progressivamente viene compresa in modo sempre più profondo e ricco. La funzione dei santi lungo il cammino della storia è proprio quella di mettere in luce alcuni aspetti della fecondità straordinaria e immensa di quel germe che Gesù ha inserito nella storia degli uomini. Anche per noi vale questo principio: ciò che noi possiamo fare non è tanto diffondere dottrine, quanto vivere l’avventura della salvezza, vivere il rapporto con Dio.nella storia, così da far emergere nuove qualità umane non solo a livello personale, ma soprattutto oggi a livello culturale e spirituale. La specie umana è a un punto decisivo: sono necessari ambienti dove, vivendo con fedeltà il rapporto con le forze della vita consentiamo all’azione creatrice di far fiorire qualità nuove, modi nuovi di vivere i rapporti, di accoglierci in culture diverse, di vivere nel dialogo interreligioso, di non reagire alla violenza. Capite allora la responsabilità che abbiamo. Oggi sono molti coloro che cercano Dio, è importante che ci siano testimoni, cioè persone che vivendo esprimano come si può passare attraverso la sofferenza, l’abbandono, la malattia, facendo fiorire umanità. Non perché la sofferenza o la malattia o l’emarginazione siano cose buone, ma perché l’azione di Dio è tale che anche in queste situazioni può far fiorire umanità nuova, se ci sono persone che si lasciano attraversare. La seconda premessa è che l’immagine di Dio emersa dall’esperienza di Gesù è stata deformata lungo i secoli. Torres Queruga scrive: “Nel Vangelo disponiamo della migliore e insuperabile immagine di Dio apparsa nella storia. Il passare dei secoli però l’ha inquinata e deformata, fino a renderla irriconoscibile in molti aspetti, non sempre i meno importante”. Egli esamina poi tre aspetti della deformazione dell’immagine di Dio attraverso Gesù: il Dio della creazione come dualismo (questo l’abbiamo già superato), il Dio della redenzione che esige soddisfazione e il Dio che compete con l’uomo nell’ambito spirituale come se dovesse esigere qualcosa di più. Sono tutti aspetti della tradizione che devono essere modificati e superati. Veniamo adesso a parlare dei tre aspetti positivi apparsi attraverso Gesù: il Dio della vita, il Dio della misericordia e il Dio della resurrezione (o dello Spirito).

Il Dio della vita. Gesù ha detto in modo molto chiaro che “per Lui (cioè per Dio) tutti vivono”: Dio non è Colui che tutto ha creato, che tutti ha fatto nascere, ma è Colui per il quale tutti vivono. Paolo (At 17,28) riprende questa idea: “In lui ci muoviamo, esistiamo e siamo”. Gesù stesso (Gv 10,10) dice: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in pienezza”. Pienezza non vuol dire compimento, vuol dire in tutte le situazioni esserci totalmente, essere totalmente pieni. Però la pienezza di un giorno non basta al giorno dopo, perché siamo in processo. Ogni giorno dobbiamo aprirci a una forza nuova di vita che fino al giorno prima non potevamo accogliere. Su questo punto c’è un equivoco emerso più volte. Dio non è il Dio della vita perché è intervenuto affinché cominciasse la vita. La vita è cominciata perché l’energia creatrice è talmente forte che attraverso gli elementi stessi della natura è riuscita via via a formare realtà più complesse. È la natura stessa che ha dato origine alla vita. Dio è il Dio della vita perché continuamente alimenta la vita, per cui può far fiorire in noi qualità nuove, perché la sua presenza contiene ricchezze non ancora espresse, perché non abbiamo avuto il tempo sufficiente o perché abbiamo avuto resistenze. Una delle ragioni fondamentali della speranza è che la presenza di Dio creante non sia ancora stata “sfruttata” (permettete questi termini così banali) pienamente. Non abbiamo avuto il tempo necessario: è da poco tempo che siamo sulla terra e riusciamo a camminare nella vita soltanto a piccoli passi. Attualmente è in atto un passaggio importante della specie umana, per cui dovremmo essere in attesa ansiosa di ciò che può fiorire attraverso gli uomini, attraverso i nostri rapporti, attraverso l’intensità delle nostre relazioni. Attraverso la convergenza di diverse culture e religioni. Quindi non dobbiamo cadere nella disperazione o nel pessimismo perché o vediamo che non ci sono persone che riescono a progettare un mondo nuovo: questo non è necessario, perché gli stessi progetti possono fiorire nella mente umana proprio per la presenza della forza creatrice che contiene già qualità che ancora non possiamo neppure immaginare. Io credo che dobbiamo alimentare questa speranza, perché vivendola diffondiamo attorno a noi questa possibilità. Perché se non c’è nessuno che attende la vita, essa non può esprimersi: noi possiamo rendere possibile il futuro proprio perché lo attendiamo, senza sapere che cosa ci attende, ma sapendo che la vita in gioco è tale che può esprimersi con sorprese straordinarie per noi, ma in realtà già presenti nel processo che stiamo vivendo. Questo vuol dire credere nel Dio della vita: credere nell’esistenza di una fonte grande, ricca, profonda.

Il Dio della misericordia. Questo tratto specifico della rivelazione di Gesù, era presente già nella tradizione profetica, ma Gesù l’ha assunto e l’ha portato a traguardi estremi. Matteo due volte (9,13 e 12,67) cita il testo di Osea (6,6): “Misericordia io voglio e non sacrificio”. Già Geremia (31,34), parlando della nuova alleanza, aveva detto: “Perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò più dei loro peccati”. Chiediamoci allora cosa vuol dire questo, perché molte volte noi intendiamo queste parole in senso giuridico, come se esercitare misericordia volesse dire assolvere giuridicamente: “va bene, non sei responsabile”, oppure: “faccio conto che tu non abbia fatto quello che hai fatto”. No, dire che Dio è misericordia vuol dire che ci investe di una forza di vita, di un amore, proprio in rapporto al vuoto che noi abbiamo prodotto col peccato, col male, con l’insufficienza, con l’inadeguatezza. Per cui si potrebbe dire (certo, è un antropomorfismo) che l’amore di Dio può esprimersi in maniera più ampia quando c’è maggiore vuoto, perché c’è maggiore accoglienza. In questo senso il peccatore è in grado di accogliere l’amore di Dio, di percepirlo in modo molto più vivo e più intenso, di uno che è cresciuto quotidianamente nell’armonia e Dio quasi non lo ricorda. Questa è stata l’esperienza di Gesù: Gesù veniva scoperto, accolto, ascoltato molto più dai peccatori che dai farisei e dagli scribi, che caso mai andavano ad ascoltarlo per contestarlo. Questi peccatori, questi piccoli, questi emarginati sono riusciti a introdurre nella storia ciò che gli altri attendevano da tempo e non hanno riconosciuto. È un fatto che dà da pensare: i buoni non sono riusciti a riconoscerlo e ad accoglierlo. E può darsi che noi siamo in questa condizione: apparteniamo a strutture sacre, frequentiamo la Chiesa, abbiamo momenti di preghiera, ma proprio per questo motivo è possibile che ci troviamo in aridità spirituale, incapaci di accogliere l’azione di Dio, di riconoscerla, di giungere a quella carica che consente di diffondere la forza della vita attorno a noi. “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” (Lc …). È la misericordia che ci rende figli: noi cresciamo come figli nella misura in cui siamo in grado di esprimere misericordia, cioè di avvolgere di amore coloro che si trovano nel male e che fanno il male. Questo punto per noi è difficile, perché noi ci riteniamo capaci di giudicare e di condannare: in tante situazioni quotidiane mettiamo in circolo dinamiche negative quando incontriamo persone che fanno il male. Arrabbiarci, inveire vuol dire lasciarsi sommergere dal male e amplificarlo. Altro è fare una denuncia che abbia una carica d’amore, una volontà di bene, altro è farla con una volontà di disprezzo, di condanna, di emarginazione. È molto delicato questo passaggio, perché noi ci riteniamo in dovere di essere aggressivi nei confronti di chi fa il male, ci riteniamo in dovere perché il male è da condannare. Ma nella prospettiva della misericordia di Dio il male è da redimere: Dio non condanna, non punisce, redime amando: “Perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò più del loro peccato”. C’è una espressione di Christian Senzerre che mette in chiaro la difficoltà che noi abbiamo di amare quando l’amore sembra infecondo (“a che serve?”), perché dopo veniamo emarginati. Occorre aver fatto l’esperienza del perdono, per scoprire la capacità e la forza di perdonare. “L’avventura dell’amore implica di saper portare il fallimento e lo scacco. A dispetto di tutto si trova presto o tardi il confronto con l’inaccettabile, la notte, il non senso totale, la perdita del senso: a che serve amare? Davanti alle tre croci innalzate della Pasqua, chi non si è chiesto: ‘dato che Egli ha la stessa sorte dei ladroni, a che cosa gli è servito amare?’”. Però di fronte al vuoto della tomba, di fronte alla storia che è nata da quella tomba vuota, appare a che cosa sia servito amare. Passando attraverso quel vuoto, quel nulla, quell’insensatezza delle tre croci innalzate, in cui i ladroni e il giusto erano allo stesso livello, la storia registra i frutti di quell’amore che ha seminato la forza di vita. E se noi ancora oggi siamo qui, se ancora oggi ci raduniamo nel suo nome, è perché quell’amore è stato così fecondo che ha attraversato i millenni e ancora ci tocca. Noi invece vorremmo che subito, di fronte al male, ci fosse il successo del nostro amore, che di fronte alla violenza già il nostro amore diventasse il cambiamento profondo della società. Siamo incapaci di morire, siamo incapaci di vedere il fallimento, perché non crediamo nell’amore. Cioè non crediamo in Dio. Crediamo ancora nelle nostre capacità operative, nei soldi che abbiamo, nelle nostre industrie, nei nostri progetti di giustizia, ma non crediamo in Dio, non crediamo nella potenza dell’amore, nella forza della misericordia.

Il Dio della resurrezione. La resurrezione non vuol dire prendere le molecole del corpo e portarle altrove, vuol dire entrare in una modalità nuova di esistenza, quella che ha fatto fiorire lo Spirito. Credo realmente che questo modello sia per noi oggi necessario: siamo chiamati a diventare spirito, cioè quell’energia che il nostro corpo deve pian piano far sorgere come strutture spirituali, che sono le strutture di una modalità nuova di esistenza che non sappiamo cosa sia. Avere fede significa cogliere che la forza che ci attraversa contiene delle possibilità che già esercita in funzione di un futuro che noi non possiamo ancora anticipare. Per questo il pellegrinaggio della ragione non è sufficiente, perché la ragione vorrebbe dire: che cosa sono? a cosa servonoe? È come se il feto nell’utero materno si chiedesse: a che cosa servono i polmoni? Non lo puoi sapere adesso, lascia che crescano, poi vedrai. Così le nostre dimensioni spirituali, la nostra capacità di amare a cosa serve se non ottengono nulla, se la storia continua come prima? Vedrai a cosa servono: vivi, abbandonati. Il Dio della resurrezione non vuol dire il Dio che ha preso il corpo di Gesù e l’ha portato altrove. Non sappiamo. Io credo che l’amore che Gesù ha esercitato sulla croce, amando in una situazione di violenza, di odio, di emarginazione, di abbandono, è stato di una potenza tale che qualcosa di diverso doveva accadere. Se questo è avvenuto, quel tipo di amore non poteva finire con un grido angoscioso, come dice Marco, un grido inarticolato. La conseguenza importante per noi è che, come dice Paolo, “se lo Spirito di Colui che ha resuscitato Gesù dai morti abita in voi, Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali, per mezzo del suo Spirito che abita in voi”. Il Dio dello Spirito in cui crediamo ha quell’energia potente per cui anche noi possiamo crescere nella dimensione spirituale e diventare figli. In questa prospettiva la resurrezione non è un miracolo, è il quotidiano. Siamo chiamati a diventare spirito. Se realmente siamo chiamati a diventare figli, come afferma la terminologia di Giovanni: “quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente”, e come conferma Paolo (Rm. 8,14): “coloro che sono figli di Dio sono condotti dallo spirito”, allora noi ci troviamo di fronte a una responsabilità enorme, perché questo passaggio dalla materia allo spirito non avviene in modo deterministico, solo con il passare del tempo: non è invecchiando che si sviluppano le dimensioni spirituali della persona. La dimensione spirituale deve essere curata, accolta, seguita. Se questa è la nostra condizione la domanda che ci siamo posti sull’immagine di Dio diventa un’altra: qual è l’atteggiamento da sviluppare perché quella forza di vita in noi possa fiorire nella dimensione spirituale? Non è “quale immagine di Dio abbiamo?”, ma “quale rapporto con Dio viviamo, così da diventare figli del Dio della vita, del Dio della misericordia, del Dio della resurrezione? Se questo è vero, il silenzio e la preghiera hanno un grande valore per noi. Ci consente di metterci in sintonia con quella forza di vita che in noi diventa parola di misericordia, parola di vita, parola di resurrezione. Dovremmo avere nella giornata e nell’orizzonte costante della nostra vita, la ricerca di questa sintonia, il sapere che in gioco, al profondo nella nostra realtà, una forza tale che può farci diventare figli di Dio, come lo è diventato Gesù.

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Pubblicato da Gioacchino La Greca

Sono nato il 27 novembre 1958, in un piccolo centro della provincia di Agrigento, la terra cara agli dei immortali che Pindaro descrisse come coloro che vivevano giorno per giorno come se dovessero morire l'indomani e costruivano come se dovessero vivere in eterno. Sono un medico, esercito in una cittadina centro agricolo un tempo prosperoso famoso per il prodotto DOP UVA ITALIA, per i vini, e per il barocco. Il mio blog è la raccolta estremamente varia di ciò che penso, facoltà che mi avvalgo di usare anche a mio discapito, messo per iscritto per non disperdere nel tempo il valore del pensiero che ognuno di noi coltiva dentro e che non può andare ad annullarsi nell'eterno mistero dell'essere. Ma che abbiamo l'obbligo di passare alle generazioni future come patrimonio spirituale.