Il dio in cui credo, la religione che voglio vivere non è quella dei meriti, che premia i buoni e colpevolizza chi sbaglia, ma voglio sperare in una religione che possa rispondere al bisogno di amore. tenerezza, amicizia, di ognuno di noi. Credere in un Dio che sia più che padre, un amico a cui rivolgersi e da cui sperare, non un giudizio e un perdono che viene dall’alto, né una sudditanza filiale che implica obbedienza. Ma un Dio amico, che ci sia a fianco nei drammi e nelle gioie della vita, che abbia comprensione e misericordia, e ci aiuti e lasci liberi di crescere e autodeterminare le nostre scelte. Senza paura di sbagliare, e senza la spada di Damocle del castigo. Il Cristianesimo che io conosco e voglio non vive di dogmi, non vive di tradizione, altrimenti sarebbe già morto con Bruno e Galilei. Piuttosto è voce viva di Gesù, e dello spirito che ci ha lasciato, il quale non ha istituito alcuna forma di potere se non una comunità, ecclesia, alla quale non ha dato altra esortazione che rispettare e vivere le beatitudini e considerare come unica condizione per farne parte di perdonare il proprio fratello. Legare il perdono sulla terra o scioglierlo significa dare l’opportunità al perdono di Dio, che già l’ha concesso da padre compassionevole prima che glielo chiedessimo, di diventare effettivo nei nostri confronti nel momento in cui lo concediamo ai fratelli. Credo che il regno si realizzi su questa terra facendoci somiglianti al padre, è un regno vicino, non la Parusia che è lontana da venire.
La fede che mi anima è dialogica, raziocinante, poggiata sul principio di autenticità non sul principio di autorità. Infine credo che il potere concesso a Pietro consista nella responsabilità di pascere e sorvegliare le pecore, non di sottometterle al rispetto di dogmi o di concetti teologici o morali che sviano dalla realtà del messaggio di Gesù. Il potere indica sempre dominio, due categorie che Gesù chiamò satana, e che alla fine lo misero a morte. Ma non per sconfiggerlo, ma per decretarne la vittoria sul mondo.
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